News

Borboni, patrioti e criminali. Enzo Ciconte, Nando dalla Chiesa e Arianna Arisi Rota raccontano il peccato originale dell’Unità d’Italia

 di Carlotta Drudi

Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti, gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra.

(Il Gattopardo, Giuseppe Tomasi da Lampedusa)

 

Violenza strumentale, “legalità difficile”, giustizia di Stato e giustizia privata, sono questi alcuni dei temi sollevati durante l’incontro tenutosi nel Collegio di S. Caterina da Siena lo scorso 23 febbraio, in occasione della presentazione del libro di Enzo Ciconte: Borboni, patrioti e criminali. L’altra storia del Risorgimento (Salerno editrice, 2016).

Vincenzo Ciconte, ex deputato e consulente per la Commissione parlamentare antimafia, insegna Storia della criminalità organizzata presso l’Università Tre di Roma e Storia delle mafie italiane nel Collegio di S. Caterina, ed è considerato uno dei massimi esperti italiani di associazioni mafiose.

A dialogare con lui c’erano Arianna Arisi Rota, docente di Storia contemporanea all’Università di Pavia, e Nando dalla Chiesa, presidente onorario di Libera, fondatore della casa editrice Melampo, nonché titolare del corso di Sociologia della criminalità organizzata presso l’Università degli Studi di Milano.

Nel nuovo saggio, lo storico calabrese fa luce su un aspetto poco esplorato della storia dell’Italia risorgimentale e post-unitaria: i rapporti collaborativi che i borbonici e i liberali instaurarono con le forme criminali esistenti nel Mezzogiorno d’Italia; un fenomeno che divenne, già all’epoca, oggetto di reinterpretazioni riduttive.

Per sottolineare il peso che queste relazioni ebbero nel compimento dell’Unità, Ciconte ha esordito con un aneddoto: quando il 7 settembre 1860 Garibaldi fece il suo ingresso a Napoli, ad attenderlo non trovò un esercito da combattere, bensì un comitato d’accoglienza. Del miracolo si doveva ringraziare Liborio Romano, ministro della polizia borbonica, che a questo scopo aveva stretto un patto con il capo della camorra, Salvatore De Crescenzo.

Se era consuetudine nell’ancient regime fare uso di delinquenti comuni, briganti e criminali per rinfoltire a necessità le file dell’esercito e della polizia, l’ingresso di Garibaldi a Napoli è spia di un fenomeno più estremo e peculiare al Mezzogiorno italiano: la delega del controllo dell’ordine pubblico, e quindi della giustizia di Stato, alle organizzazioni criminali.

Con l’annessione del Regno delle Due Sicilie il piccolo Stato piemontese ereditava un problema forse più grande di lui. Nell’agenda dei governo italiano sarebbe emerso, fin da subito, il tema dell’ordine pubblico e della “questione meridionale”.

Arianna Arisi Rota ne ha spiegato la ragione: il processo di smilitarizzazione della popolazione, che sempre segue un periodo di guerra, si stava dimostrando più lento e complesso del previsto, a causa del grande numero di fazioni armate in campo.

Se ne possono enumerare almeno quattro: i baroni, una classe ormai in declino; gli homines novi della borghesia, divenuti proprietari terrieri dopo la redistribuzione di possedimenti seguita alla Restaurazione; il variegato mondo criminale; e una moltitudine di contadini rovinati dalla privatizzazione borghese delle terre demaniali, tra cui figuravano proletari, senzaterra e affamati.

Chi preoccupava di più i liberali era proprio questa schiera di diseredati, perché promotrice di un lotta per la riconquista dei diritti demaniali – da non confondere con una lotta alla proprietà privata tout court – poi sfociata in un fenomeno sociale assai conosciuto, ma a lungo frainteso ed erroneamente associato alle mafie: il brigantaggio.

Nel complesso, comunque, l’uso della violenza all’alba del nuovo Regno d’Italia era diffuso e trasversale, e sia la Destra che la Sinistra storiche vi contribuirono con una politica di risoluzione della questione meridionale aggressiva e poco lungimirante.

Una serie di errori strategici frutto di un decisionismo d’emergenza, in parte dovuto ad una scarsa conoscenza, o una conoscenza pregiudiziosa, del territorio e della popolazione in causa, le cui conseguenze avrebbero avuto effetti durevoli sulla storia della legalità in Italia.

Con il frequente ricorso all’esercito e agli “stati d’assedio” (1862, 1866), all’adozione di misure speciali contemplate nella legge Pica del 1863, e soprattutto con il servirsi delle mafie come strumenti di controllo dell’ordine pubblico, lo Stato italiano finì per delegittimare se stesso, legittimando, per contro, le mafie, e facilitandone le infiltrazioni nel sistema.

Pensiamo alla vicenda Notarbartolo, una tra i molti delitti politici che si verificarono nel periodo esaminato da Ciconte: nel 1893 Emanuele Notarbartolo, direttore del Banco di Sicilia, veniva assassinato durante un viaggio in treno da due affiliati di Cosa Nostra. Ben presto, il nome del mandante, il deputato Raffaele Palizzolo, divenne un segreto di Pulcinella. E quando il figlio di Notarbartolo si rivolse al marchese di Rudinì, allora presidente del Consiglio, per domandare giustizia, questi gli rispose, con una franchezza rivelatoria: “Ma se lei sa con sicurezza che il colpevole è Raffaele Palizzolo perché non lo fa assassinare?”

Insomma, nel cedere a forme di patteggiamento, lo Stato aveva dichiarato indirettamente la sua incapacità di operare nei limiti dalla legalità, e cessava perciò di essere, agli occhi della popolazione meridionale, un credibile garante della legge.

Si può immaginare che impressione diede, ai testimoni dell’epoca, il vedere “maffiosi” fino a poco prima ricercati o rinchiusi in prigione, diventare tutto d’un tratto agenti riconosciuti dal governo. Riconoscere il primato della malavita organizzata, della giustizia privata su quella pubblica, era solo il naturale passo successivo.

Dalla Chiesa, nel suo intervento, lo definisce il “peccato originale” nella creazione d’Italia; l’avvio di un modus operandi di cui stiamo ancora scontando le spese, se si pensa che le problematiche anticipate da quell’originario patto “Stato-mafia” sono ancora lontane dall’essere risolte.