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La fantasia è una cosa seria. Intervista a Moony Witcher

Moony Witcher è lo pseudonimo di Roberta Rizzo, nata a Venezia nel 1957 e per anni inviata di cronaca nera per il Gruppo “L’Espresso” prima di dedicarsi totalmente alla narrativa per ragazzi. Nel 2002 ha pubblicato La bambina della Sesta Luna, vendendo oltre un milione di copie e arrivando a tradurre la saga in più di 30 paesi. Nel 2004 ha fondato la società Sesta Luna srl, attiva non solo nella pubblicazione ma anche nell’organizzazione di eventi e corsi di scrittura creativa per giovani. Tra il 2007 e il 2008 ha ideato il Fantasio Festival, coinvolgendo più di 70.000 ragazzi in laboratori, spettacoli e incontri con autori.

Dal giornalismo alla narrativa per ragazzi: com’è avvenuto questo passaggio e cosa ti ha spinto a diventare Moony Witcher?

Sembra una risposta assurda ma è l’amore. A un certo punto, mentre facevo l’inviata di cronaca nera e giudiziaria per il gruppo espresso, quando avevo 42 anni, mi sono innamorata di un uomo, già padre di 2 bambini (Francesco e Alessandra, rispettivamente 10 e 8 anni). Nell’incontro con i bambini è nata in me questa magia: era una notte di Natale, eravamo nella mia casa a Venezia per le vacanze. Avevamo affisso al soffitto le decorazioni fosforescenti e al buio pareva un cielo stellato: abbiamo cominciato a contare le lune arrivando alla sesta e Alessandra mi chiese: “Ma chi c’è in questa luna?”. È lì che in me è tornata una bambina, che era la mia amica immaginaria d’infanzia Nina, con la quale giocavo e sognavo di fare tante cose. Avevo questa amica perché ho avuto un’infanzia complicata, difficile, dolorosa. Quella notte di Natale ho estratto dal cuore la mia amica immaginaria per loro e così è nata Nina la bambina della sesta luna. I bambini hanno iniziato a raccontare storie su Nina (magia, alchimia, animali strani ecc). Per non dimenticarle ho iniziato ad appuntarle e mi sono accorta che avevo scritto tantissimo. Era l’inizio del 2001 e spontaneamente ho deciso di inviare i primi 5 capitoli di Nina a Giunti. Il 30 gennaio ci fu il delitto di Cogne e come inviata rimasi ad Aosta 3 mesi, dimenticandomi del manoscritto. A un certo punto mi ha telefonato l’editor della casa editrice chiedendo il resto del racconto perché avrebbero voluto pubblicarlo. Chiesi io di inventare uno pseudonimo perché non andava bene che un giornalista di cronaca scrivesse fantasy per bambini, e così è nata Moony Witcher. Dopo il successo del primo romanzo ho continuato con più di 30 romanzi, e a un certo punto ho deciso di lasciare il giornalismo perché non riuscivo più a conciliare le due cose, non avevo più tempo per entrambi.

Nella tua formazione hai approfondito gli studi di Piaget e Galimberti: in che modo queste esperienze hanno influenzato la tua scrittura, soprattutto quella rivolta ai giovani lettori?

Il mio mentore è stato Umberto Galimberti. Studiando filosofia a Ca’ Foscari, ho avuto il privilegio di confrontarmi con lui ed Emanuele Severino, due maestri che mi hanno mostrato come i grandi temi morali e culturali nascano da radici profonde. Da Piaget ho appreso l’importanza dello sviluppo cognitivo e del linguaggio nel bambino: oggi, nei miei romanzi, intreccio immaginazione e pedagogia, costruendo storie che parlino al cuore dei giovani lettori ma stimolino anche la loro crescita interiore. La filosofia, per me, è la base stessa di ogni avventura fantastica.

Quali sono i libri più importanti per te? Quelli che ti hanno segnato?

I testi che più mi hanno influenzato spaziano da Tolkien e Dune — veri pilastri del fantasy adulto — ai grandi classici per ragazzi: Verne, Salgari e Lewis Carroll, che hanno acceso la mia fantasia fin da bambina. Credo fermamente che la filosofia sia il cuore di ogni storia, quindi nei miei ultimi lavori non ho esitato a inserire riferimenti a Emily Dickinson e Shakespeare: se usati con cura, persino i più giovani possono confrontarsi con tematiche profonde all’interno di un’avventura fantastica.

I tuoi libri sono ricchi di immaginazione ma affrontano anche temi profondi. C’è un messaggio in particolare che cerchi sempre di trasmettere, anche tra le righe di una storia fantasy?

Credo che il fantasy sia uno strumento unico per veicolare valori universali — bene e male, giustizia, coraggio e amicizia — in modo molto più coinvolgente per i ragazzi. In Italia il genere è spesso considerato di serie B e raramente premiato dai critici, ma proprio per questo io inserisco consapevolmente concetti filosofici e pedagogici all’interno delle mie trame: voglio che i giovani lettori, immersi nella meraviglia, si interrogino sul senso delle proprie azioni e portino con sé un insegnamento profondo.

Con “Sesta Luna” ti occupi anche di formazione e servizi editoriali. Qual è l’aspetto che ti entusiasma di più nel lavorare con giovani scrittori o aspiranti autori?

Ciò che mi appassiona è scoprire la loro motivazione profonda: scrivono per sé stessi o per comunicare qualcosa agli altri? Solo chi ha una spinta autentica può trasformare un’idea in un buon libro. Dei corsisti che seguo, su mille almeno una decina sono oggi autori pubblicati: penso a Luca Casetta e Martina Pucciarelli, due esordienti che stanno avendo un grande riscontro. È una soddisfazione veder nascere nuove voci grazie alla mia esperienza, ma mi rendo conto che i talenti veri sono rari. Per questo credo che le scuole di scrittura debbano essere esigenti e offrire una preparazione rigorosa, cosa che purtroppo non sempre accade.

Con la ripubblicazione de La bambina della Sesta Luna, Nina incontra una nuova generazione di lettori. Che rapporto pensi possa nascere oggi tra i suoi occhi curiosi e quelli dei ragazzi di oggi, cresciuti in un mondo così diverso?

Nina continua a parlare ai lettori di oggi come parlava a quelli di vent’anni fa. I temi che affronto – amicizia, coraggio, giustizia, bene e male – sono universali e non hanno tempo. Me ne accorgo ogni volta che incontro i bambini nelle scuole: le loro domande sono simili a quelle che mi facevano i lettori del 2000. Spesso sono proprio le madri, ex lettrici della saga, a regalarla ai figli. Tuttavia noto un cambiamento: i bambini di oggi faticano di più a usare l’immaginazione. Molti sembrano influenzati da ciò che vedono nei videogiochi e nei cartoni, e ripetono idee già pronte. La tecnologia, che dovrebbe essere uno strumento, spesso prende il sopravvento sulla fantasia.

Cosa ne pensi dell’AI, cosa ci riserva il futuro?

L’AI ha un enorme potenziale—dalla ricerca scientifica alla medicina, può davvero migliorare la vita. Il mio timore, però, è che cerchiamo in essa una perfezione che la natura e l’uomo non possono dare: la macchina non ha un’anima e non può sostituire il nostro sguardo critico o creativo. Io ho scritto una trilogia che si chiama Morga, in cui parlo di un altro pianeta occupato dagli ultimi superstiti della terra, ma occupato in modo sbagliato. Morga cerca di tornare sulla terra, anche se le hanno detto che è stata disrtutta da una guerra nucleare, alla fine ci tornerà. Credo che serva un vero risveglio culturale, soprattutto tra i giovani: non lasciare che il digitale diventi la nostra unica realtà, ma usarlo come strumento per costruire un futuro più consapevole e sostenibile.

Stai già lavorando a un nuovo libro o progetto? Ci puoi anticipare qualcosa?

Sto progettando un’accademia di scrittura e editoria a Venezia: un luogo dove insegnare “letteratura vera” e formare autori consapevoli. So che è una sfida in una città complessa e in un mercato dominato da mode editoriali e influencer, ma credo sia essenziale contrastare la superficialità con una formazione solida. Il mio obiettivo è creare uno spazio dove il valore delle parole torni al centro, al di là delle tendenze dirompenti del momento.

Daniel Remus