Scrivere di terra e di cielo: “Giorno di vacanza” di Inès Cagnati
Quando si leggono i romanzi di Inès Cagnati non si può che pensare all’illogica consapevolezza dei matti e dei bambini, alla miseria e, qualche volta, all’insensata bruttezza dell’essere umano. Giorno di vacanza (Le jour de congé, 1973) è il suo primo romanzo, edito da Adelphi nella traduzione italiana di Lorenza Di Lella e Francesca Scala, che di lei nel 2022 aveva già pubblicato Génie la matta (Génie la folle), il secondo lavoro del 1976.
Il giorno di vacanza di cui si fa accenno nel titolo è un giorno passato su un mucchio di paglia umida fuori da casa perché nessuno viene ad aprire la porta, dopo aver pedalato nel fango, con la notte e la nebbia sugli occhi, su una bicicletta instabile e tutta ruggine. Senza niente da aspettare, se non l’essere ricacciata indietro. È così che Galla, la protagonista, trascorre il suo giorno di vacanza dalle lezioni del collegio.
Iniziando la lettura del testo si notano tra i due romanzi delle corrispondenze di motivi e di prosa, che in Giorno di vacanza vanno dunque interpretati come l’incipit dello scrivere successivo. La prima è lo stile: ritornano nel testo interi sintagmi o anche frasi, talvolta senza cambiare nemmeno una parola, o soltanto qualcuna. C’è una ridondanza di certe cose dette che tuttavia non è mai stucchevole; la si interpreta poi come un adattarsi del registro di Cagnati al modo di essere e di pensare di una bambina, le sue protagoniste lo sono entrambe. È una scrittura che le fa parlare, nel ripetersi e nel domandare, come farebbero per davvero, senza per questo essere incompleta, o sacrificata. Che riporta certe cose indicibili, di violenza, di miseria, con la franchezza semplice con cui soltanto un bambino può dirle.
Questa è la sua forma stilistica; se si guarda alla materia trattata, è una scrittura che narra disgrazie e porta con sé un carico di ineluttabile. Tocca il suo apice alla fine di certi capitoli, o di singoli paragrafi, con le ultime battute che interrompono quello che si sta dicendo e lo concludono con un tono tragico – dove il tragico convive con il normale, come fosse inevitabile. Mentre si legge si ha sentore che qualcosa di ancora più terribile debba capitare, e capiterà senz’altro.
«Ma a un tratto ho sentito un lamento, una specie di stridio uniforme e prolungato. Un lamento quasi impercettibile che sembrava non finire mai. Mi sono guardata intorno e quando ho capito ho supplicato mia madre di liberare la salamandra o almeno di ucciderla in fretta. Lei non ha voluto. Ha detto di non toccarla, che era una bestia schifosa e che bruciava. Allora mi sono seduta sotto il pero accanto alla salamandra che si lamentava, per non lasciarla sola. Ha continuato a lamentarsi per un giorno e una notte. Poi la mattina, all’improvviso, è morta».
Anche a livello di trama ci sono motivi che tornano in tutta la produzione di Cagnati. Il suo è uno scrivere di terra e di cielo, dove il contesto è sempre quello della natura, più propriamente della campagna. E la stretta dipendenza: in una terra sempre affogata dalle paludi, Galla, le sue tante sorelle, i genitori avranno fame; in un cielo sempre freddo e appannato di nebbie non ci potrà essere il sole che fa crescere i campi. Il primo resoconto di questa terra è in immagine di copertina, con il dipinto La palude di Gustav Klimt, dove la foschia e le acque ritratte sono quelle pesanti e selvagge del romanzo; allo stesso modo, nella figura asciutta di un albero di Schiele si può intravedere la campagna scarna di Génie la matta. Sono copertine che alludono già al racconto; un tentativo che, in parte, realizza anche l’edizione francese di Gallimard, dove su uno sfondo bianco si allineano frasi prese dalla narrazione per formare visivamente il disegno di una bicicletta, l’unica cosa che Galla può realmente dir sua. Cagnati era figlia di contadini, stavano nel dipartimento francese Lot-et-Garonne. Di conseguenza, come racconta lei stessa, ha svolto tutti i lavori che si fanno in campagna, ha passato delle estati a servizio da altri per potersi comprare qualcosa o anche solo da mangiare. Quei lavori li conosce, e li descrive nel dettaglio quando sono le sue protagoniste a compierli.
Si introduce qui, inoltre, il tema che sarà alla base del secondo lavoro, vale a dire l’abbandono di una madre nei confronti della propria figlia, seppure non sia mai esplicito, totalmente dichiarato. Nel romanzo successivo, difatti, Génie vede la figlia come il frutto di una violenza subita, per questo la tratta con il silenzio, e anche qui non si può di certo dire che Galla sia nata nell’amore. La madre rappresenta un’assenza assoluta, pur stando con lei. Come in Génie, è l’animale a dare l’esempio sull’uomo: «Preferisco aiutare le mucche piuttosto che mia madre […] Le mucche sono sempre contente dei loro piccoli. Dopo non si fanno domande, li leccano con dolcezza, a lungo. È bello». E la cagnetta di Galla, l’altra madre della storia, sembra esserlo anche per lei. Gli animali vengono immolati pur essendo l’esempio morale che manca a chi li giustizia. Sono atti di violenza che spesso non hanno nemmeno uno scopo pratico, che prendono la mano a chi li esegue, infettano tutto.
«Le devo i miei ricordi più belli, a lei e al cane che l’ha preceduta. Milan. Mio padre l’ha impiccato perché era vecchio. Non era né malato né niente. Soltanto vecchio. I cani, a volte, non ce la fanno più, come le persone, ma le persone non si possono impiccare quando non servono più a niente. Agli animali, invece, puoi fare quello che vuoi e impiccarli quando diventano vecchi e non ce la fanno più».
In un certo senso la stessa sorte tocca anche alle protagoniste di Cagnati; Galla vuole con tutte le sue forze andare a scuola, nonostante la sua famiglia sia troppo povera, e ci riesce, ma rispetto alle altre ragazze del collegio ha vestiti sporchi e accartocciati, anche il suo aspetto esteriore è diverso. Umiliata da tutte, per la sua diversità le altre non la perdoneranno. A proposito di questo in un’intervista della scrittrice Laurence Paton, posta alla fine dell’edizione italiana di Génie la matta, Cagnati afferma che il matto, o semplicemente il diverso, rassicura tutti gli altri in quanto garante della loro normalità dato che, per l’appunto, non sono “così”. Chi è diverso può avere un proprio posto in una comunità, ma non appena se ne distanzia o comincia a minacciare l’interesse di altri, dovrà essere contenuto. È quello che accade in collegio quando Galla risalta sulle compagne.
Sarebbe un libro, questo, da rileggere una volta terminato, per ritrovare con il senno del poi tutti gli indizi dell’ineluttabile, pagina per pagina. Ancora come in Génie la matta, nella narrazione ci sono dei simboli che esprimono la miseria senza dirla, delle metafore. In Génie è la favola dell’orco a celare la sorte di violenza che toccherà alla protagonista; qui è la storia di Ofelia a racchiudere tutto, il suo cadere in acqua, il suo lasciarsi annegare in mezzo ai fiori della palude. E poi l’evasione verso il tropicale e i giochi di colore per renderlo, il dirsi di partire prima o poi verso una terra piena di sole, e per questo rigogliosa. Talvolta si leggono scene inutilmente violente, non se ne capisce il motivo a monte, il perché dell’azione. C’è il tremendo, ma anche l’accettazione del tremendo; non si cerca mai nelle parole un tentativo di riscatto, piuttosto sono un dovuto resoconto. Forse tutto è riassumibile così: la miseria chiama altra miseria e questi romanzi, come ha lasciato detto Cagnati, vogliono essere il tentativo di rendere meno assurde certe esistenze che non hanno visto altro.