Interviste,  Mondo Editoriale

Chi ha paura del freelancing? Intervista a Alessandra Zengo

Editor, chi è costui?

Editor: professione più desiderata dagli aspiranti lavoratori nel campo editoriale.

Il mondo, come ormai sappiamo bene, è composto da un numero tendente a quasi infinito di “bolle”: ognuno della propria saprebbe tratteggiare le caratteristiche: gusti, idiosincrasie, tendenze politiche e via discorrendo.

Nella “bolla editoriale” l’editor è quella figura mitologica e tanto riverita, che però nelle altre bolle è quasi sconosciuta. Al di fuori della vostra ristretta cerchia di colleghi e amici intellettualoidi, infatti, pochi sapranno di cosa si occupa un editor.

Figuriamoci un digital strategist.

Alessandra Zengo è entrambe le cose. Su Instagram è @editrix_maxima, ed è molto attiva sia per questioni editoriali sia per tutto quello che concerne il suo universo personale (dalla passione per Sherlock, passando per le sue adorate macchine da scrivere per giungere alle sue amate cagnolone). Qualche mese fa ci siamo conosciute – virtualmente – e le ho chiesto se fosse disponibile a fare quattro chiacchiere su editoria, mondo del lavoro e digital strategy.

Questo è il risultato.

Formazione e professione

Partiamo dalle basi, qual è la tua formazione? E come hai deciso di diventare editor?

Formazione un po’ poco scientifica (liceo) e un po’ troppo umanistica (filosofia all’università). Non ho deciso di diventare editor, ma mi ci sono trovata. Da cosa nasce cosa, come diceva Bruno Munari: ho cominciato parlando di libri e ho finito per correggerli, senza passare dal via col tesserino da giornalista.
Solo in un secondo momento, quando avevo già provato l’ebbrezza della revisione, mi sono fermata a riflettere sul senso dell’editing del testo — qualsiasi tipo di testo, anche se di solito si pensa al romanzo. E forse è stato meglio così, perché a volte la teoria pietrifica, tanto è vasta e rizomatica.

Di che tipo di editing ti occupi? Narrativa, saggistica o entrambe?

Entrambe, insieme alla varia, ma con una netta prevalenza della narrativa letteraria e di genere. Non mi occupo, invece, di poesia e teatro.
L’editing contenutistico cambia a seconda del tipo di libro: in un romanzo ci si concentra sulla trama, sulla caratterizzazione e sullo sviluppo dei personaggi, sui dialoghi, sulla lingua, sul world building, nel caso del fantastico, e così via; in un saggio la questione stilistica si pone ancora, in relazione al pubblico e al grado di specializzazione, mentre il resto scompare, lasciando spazio a preoccupazioni strutturali, retoriche e argomentative.

Il line editing, invece, sta bene su tutto.

Che profilo hanno i tuoi clienti: lavori per agenzie, case editrici o per privati? Quali sono le soluzioni che proponi loro?

Non ho mai collaborato con agenzie letterarie e service editoriali.
Le agenzie ricoprono un ruolo fondamentale, ma nell’ultimo decennio è andato consolidandosi un nuovo standard, quello della “tassa di lettura”: lo scrittore, per essere considerato, deve accettare una valutazione a pagamento del proprio manoscritto. A volte il lettore professionista è un dipendente, altre volte è un collaboratore esterno che poi corrisponde una percentuale all’agenzia. Succede pure che lo scrittore debba sostenere i costi dell’editing, peraltro senza alcuna garanzia di rappresentanza. Nella mia idea di editoria, l’agente letterario chiede una percentuale (fino a qualche anno fa era fissata al 10%, adesso è raddoppiata) sull’anticipo e sulle royalties che vengono corrisposti agli autori. Se l’agente guadagna a monte, cioè dal cliente, viene meno l’incentivo (pecuniario) nel piazzamento dei titoli presso le case editrici, no?

Dall’altro lato della barricata si trovano i service editoriali, che non sono noti per la qualità del lavoro svolto. In effetti, se lo scopo del service è la concentrazione del processo produttivo (ideazione, stesura, editing, correzione, grafica e impaginazione) al miglior prezzo, la cura del prodotto non sarà certo la preoccupazione principale. E nemmeno le tutele dei lavoratori: pochissimi, infatti, godono di un regolare contratto. I compensi per i collaboratori esterni a Partita Iva? Spesso inferiori a quelli offerti dagli editori.
Ho lavorato e continuo a lavorare per alcuni gruppi editoriali. Sempre meno, però, visto che le tariffe e le tempistiche sono molto lontane dall’ideale. Nella mia esperienza, i privati e le aziende di altri settori pagano prima e pagano meglio.

Tu sei editor e digital strategist, come sei arrivata a coniugare questi due aspetti nella tua professione? E cosa significa essere digital strategist per l’editoria?

Quando mi chiedono che lavoro faccio, rispondo soltanto “editor” e poi, invece di aspettare la consueta espressione di perplessità, specifico: “correggo libri”. Non correggo solo libri, ma la parte redazionale è quella meno complessa da spiegare a chi non è del mestiere.

Per una buona fetta della popolazione le professioni digitali sono ancora oscure, indistinguibili, e forse non a torto dato che le definizioni sono arbitrarie, e cambiano con la stessa frequenza delle previsioni metereologiche. Ognuno sceglie (o s’inventa) il job title che preferisce, al di là delle mansioni.

E non parliamo delle liste di “skills” richieste negli annunci online: le aziende italiane hanno creato il mito del social media manager strategist copywriter editor webmaster videomaker graphic designer promoter ufficio stampa. Una figura mitologica che dovrebbe essere pagata a peso d’oro, se esistesse sul serio, e che invece vorrebbero inquadrare come stagista ma con promessa di assunzione a 1.300 euro al mese. Il problema è che la gente finisce per crederci, e sentirsi in difetto nella comparazione.

Nel mio caso le due cose, l’editoria e il digitale, sono emerse e cresciute insieme. Ho cominciato il mio percorso sul web nel 2009 con un blog collettivo e una rivista (che ha avuto un grandissimo successo nonostante non sia mai stata stampata), e da lì non mi sono mossa. Mi piace sperimentare con la fisicità del progetto, della carta, del libro, ma il mio mainframe è tarato sull’immateriale, sulla comunicazione asincrona, sui bit. Sulla possibilità di fare cose che prima non si potevano fare, sulle commistioni tra vecchio e nuovo. La nostalgia per l’analogico c’è (colleziono macchine da scrivere meccaniche!) ma il procedimento è inverso: dal digitale al reale; o meglio, concreto, perché pure tutto ciò che è digitale è reale, hegelianamente parlando.
Temo che un digital strategist per l’editoria sia destinato a scontrarsi con un solidissimo muro di gomma. Le case editrici ci stanno dimostrando, giorno dopo giorno, quanto poca importanza diano alla comunicazione online.

 

Freelancing: pro e contro

Cosa significa per te lavorare come freelance? Quali sono i punti di forza e di debolezza rispetto al lavoro da dipendente?

Breve riassunto della vita da freelance. Non so dire se siano pregi o difetti, in assoluto; penso dipenda da aspettative, preferenze e sensibilità individuali.

— Nessun bisogno di uscire di casa e passare ore affollate e asfissianti sui mezzi pubblici o nel traffico. Nessuna vita da ufficio a cui conformarsi. Nessun capo, magari meno qualificato, a cui rendere conto. Nessun collega sgradito. E addio alle “call” inutili che si potrebbero risolvere con uno scambio di e-mail.
— La possibilità di guadagnare molto di più, o molto di meno, con le tipiche fluttuazioni da borsa finanziaria. E la possibilità, da non sottovalutare, di scegliere i progetti e le persone da seguire. Lo scenario reale sarà liberatorio o limitante a seconda della propria esperienza e notorietà.
— L’impossibilità di sfuggire all’ubiquità imposta dalla libera professione: non ci si può limitare al compito specifico da svolgere, come un dipendente, ma è essenziale dedicarsi anche a tutto quanto ci gravita attorno — la contabilità, la promozione, la vendita, la comunicazione, la manutenzione ecc.

Per quanto riguarda più strettamente il lavoro con la L maiuscola: come ti sei procurata i primi clienti, sia come editor che come digital strategist? Hai qualche consiglio per chi volesse intraprendere la strada del freelance?

Esistono due categorie di freelance editoriali: chi apprezza la (relativa) stabilità di service e case editrici, e chi preferisce la mutevolezza dei clienti privati.

Nel primo caso, ci si propone in un modo affatto differente dal redattore che cerca un impiego a tempo indeterminato: bisogna preparare un curriculum, bussare alle porte dei propri interlocutori e sperare che rispondano per elemosinare una prova di qualche tipo (lettura, correzione, editing, ecc.). Il processo, già penoso di suo, è complicato da un brutto vizio tipico dell’editoria: operare nell’ombra e non pubblicare annunci di lavoro. E così le opportunità d’ingresso si riducono drasticamente, e non per colpa della preparazione dei candidati.

Nel secondo caso, il curriculum tradizionale non serve. Io non lo aggiorno dal 2015, credo. Ciò che serve, invece, è una presenza online solida, a partire da un sito ottimizzato per i motori di ricerca. Se i testi saranno scritti bene, se la presentazione non sarà l’ennesima variazione sullo stesso tema, se le tariffe saranno facili da trovare, risparmierete tempo nel rispondere alle richieste e attirerete i clienti giusti, che apprezzeranno la vostra personalità e il vostro metodo di lavoro.

Valentina Diodà