Recensioni

L’ultima cosa bella sulla faccia della terra

 

Michael Bible, già autore in patria di Empire of Light (2018) e Sophia (2016) per Melville House Publishing, Brooklin, ex librario della Square Books di Oxford, Mississippi e collaboratore di “Oxford American”, “The Paris Review Daily”, “Al-Jazeera America”, “ESPN The magazine”, “New York Tyrant Magazine”.

«Un pugno nello stomaco»: così il “New York Times Book Review” ha definito L’ultima cosa bella sulla faccia della terra, il nuovo romanzo breve dello scrittore statunitense Michael Bible, uscito di recente nella collana “Fabula” di Adelphi, inserendosi di diritto tra i grandi titoli della tradizione letteraria sudista.

«Non so chi leggerà queste pagine», si chiede Iggy, il protagonista, in uno dei passi più significativi dell’intero racconto, tra i più enigmatici e colmi di poesia, il testamento di un condannato a morte che scandisce il tempo guardando dalla finestra della sua cella le foglie che cadono da un albero di corniolo: per lui, in bilico tra sogno e realtà, «l’ultima cosa bella sulla faccia della terra». Passaggio con cui la casa editrice milanese ha titolato la sua traduzione, distaccandosi dall’originale e riscuotendo peraltro grande apprezzamento da parte dello stesso autore:

«Il titolo italiano è decisamente molto più bello – ha affermato Bible in un’intervista alla Fondazione Circolo dei lettori di Torino –. Sono pessimo a proporre titoli, una delle opzioni era Endless Idiot, che viene dalla citazione della scrittrice statunitense Carlson McCullers “while time, the endless idiot, runs screaming around the world”, ma all’editore non piaceva. Abbiamo quindi scelto The Ancient Hours perché si riferisce al tempo, vero protagonista della storia».

Un tempo che dialoga, lungo il percorso narrativo, con la cosiddetta “Costante”, descritta in questo dramma corale come disperazione e amore in un connubio di sentimenti che si mescolano creando forti sensazioni di disagio e speranza; emozioni che nascono da un tragico evento avvenuto in una tranquilla cittadina dell’estremo Sud degli Stati Uniti, Harmony, uno di quei luoghi in cui non succede mai niente, in cui chi lo abita fatica a riconoscersi, bramando di fuggire lontano da quell’oscuro morbo, da quel dolore segreto di cui solo pochi sembrano avere consapevolezza. Preghiere di lutto nella notte si alternano nelle quattro parti che compongono il racconto, quattro voci disperate segnate da una scrittura serrata, cruda, a tratti metafisica, restituita fedelmente dalla traduzione di Martina Testa che ci rende partecipi di quella smisurata tragedia che caratterizza la narrazione e con cui la silenziosa comunità deve riuscire a convivere.

Oltre al titolo, che contribuisce a rendere l’esordio italiano di Bible un successo letterario, anche la scelta di copertina si discosta dall’originale: mentre l’edizione di Melville House Publishing (Brooklyn) è caratterizzata da uno sfondo minimale color carta da zucchero su cui aleggia, in primo piano, il ricamo di una foglia che cade, la brossura con alette di Adelphi è invece armonizzata da un’illustrazione (La nuvola rossa) dell’artista di Bilbao David de las Heras; una soluzione grafica che convince grazie alla descrizione sintetica dell’artista spagnolo, in grado di catturare lo spirito del testo attraverso la rappresentazione di un rogo in mezzo a un paesaggio immobile.

Lo stesso dualismo che si cela nelle profetiche parole di Bible, tanto legate alla duplice simbologia del fuoco, purificatore e distruttivo, quanto attente al ritmo e alla forma del linguaggio che si fa principe rispetto alla storia: vi si percepiscono alcune soluzioni narrative riprese da J. D. Salinger, William Faulkner e dal cinema orientale di Akira Kurosawa e Hong Sang-soo, citazioni caratterizzate sensibilmente da un’orchestra di voci che inseguono la “Costante”, la verità, il perdono e la speranza. Quel piccolo teatro quotidiano degno di essere percepito come l’ultima cosa bella sulla faccia della terra.

 

«Per concludere voglio dire solo questo. Se c’è qualcosa che amate, tenetevelo stretto perché non si può mai sapere quando verranno a portarvelo via».

 

Francesco Marinello