Raccontare gli invisibili. Intervista a Daniele Mencarelli
Il 21 febbraio 2023 si è svolta, presso il Collegio Castiglioni Brugnatelli di Pavia, la presentazione
dell’ultimo libro di Daniele Mencarelli, Fame d’aria (Mondadori). Il romanzo narra di Pietro, un
padre in viaggio con il figlio autistico attraverso l’Italia. Rimasti bloccati a Sant’Anna del Sannio,
un borgo sperduto del Molise, i due vengono aiutati e accolti dalla gente del paese: il meccanico
Oliviero, l’anziana Agata che gestisce l’unico bar del luogo e un tempo anche una pensione, la sua
aiutante Gaia. Prima che la sosta forzata di Pietro giunga al termine, gli abitanti di Sant’Anna del
Sannio si renderanno conto che il viaggio non ha lo scopo che lui aveva raccontato.
Daniele Mencarelli è nato a Roma nel 1974. Esordisce come poeta nel 1997 sulla rivista
«clanDestino». Nel 2001 pubblica la raccolta poetica Bambino Gesù, Ospedale Pediatrico per
Tipografie Vaticane, ampliata nel 2010 da Nottetempo, in cui tratta il tema della malattia infantile,
che ha avuto modo di osservare da vicino lavorando nel reparto di neuropsichiatria infantile
dell’ospedale romano. Questa esperienza è al centro del suo primo romanzo, La casa degli sguardi,
uscito per Mondadori nel 2018. Il libro è accolto da un grande successo di critica, che porta l’autore
alla vittoria di diversi premi letterari (Premio Volponi, Premio John Fante opera prima e Premio
Severino Cesari opera prima). Nel 2020 pubblica Tutto chiede salvezza (Mondadori), con cui si
aggiudica il Premio Strega Giovani e da cui Netflix trae l’omonima serie tv di successo. In occasione della presentazione del suo nuovo romanzo abbiamo incontrato l’autore, di cui riportiamo qui di seguito l’intervista.
Fame d’aria racconta la disperazione di Pietro, che, assieme alla moglie, è l’unico a occuparsi del figlio Jacopo, senza beneficiare di alcun supporto esterno. Quanto è importante che oggi si parli della condizione di solitudine delle famiglie con bambini disabili?
Credo che sia importante parlare di tutte quelle forme di abbandono che esistono oggi. Il tema dell’autismo sociale, come lo ha definito Papa Francesco, è sempre più una calamità. Le difficoltà economiche, sommate a gravi vicende personali, danno origine a una sorta di ritiro sociale. Io credo che la letteratura debba sempre proporre temi che riguardano l’uomo, nel bene e nel male. L’abbandono è un tema presente oggi più di ieri, ed è giusto parlarne.
Aveva in mente da tempo di trattare questa tematica o la storia nasce da un episodio recente?
Lavorare all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, vent’anni fa, è stato fondamentale per la mia scrittura. Da lì ho iniziato a prendere a cuore storie che non sembrano interessare nessuno: quelle dei bambini malati, dei pazienti psichiatrici, di chi convive con la diagnosi infausta di un figlio. È stata un’esperienza decisiva sotto tutti i punti di vista.
Durante la presentazione del libro lei ha definito il personaggio di Pietro come un uomo schiacciato dall’assenza di una rete extrafamiliare di supporto. Quali sono i rischi che corre chi si confronta da solo con qualcosa più grande di sé?
Il libro giudica la famiglia nucleare di stampo piccolo-borghese, fatta da padre, madre e figli, che davanti a certe situazioni non è in grado di reagire in modo efficace. La famiglia di un tempo [N.d.r. che comprendeva parenti più o meno prossimi] sapeva far fronte comune davanti alle avversità, mentre oggi le famiglie sembrano veicoli lanciati a tutta velocità in una competizione che vede tutti contro tutti, anziché essere espressione di una solidarietà diffusa. A questi personaggi manca tutto: lo Stato con le sue istituzioni, l’accesso gratuito alle cure mediche, le rispettive famiglie (una perché lontana, l’altra perché non riesce a interfacciarsi con il figlio per generazione ed età). Si ritrovano da soli e scavano attorno a sé un solco per non far avvicinare nessuno, perché il rischio per chi è abbandonato è che si isoli. Il romanzo afferma anche che certi mostri non esistono, perché chi arriva a pensare di togliere la vita a un figlio disabile, come è accaduto in recenti fatti di cronaca, lo fa per disperazione e solitudine, non perché sia un mostro.
Il titolo Fame d’aria è nato spontaneamente oppure è frutto di discussioni con la casa editrice?
In passato alcuni titoli sono stati discussi, altri sono stati frutto di un’elaborazione comune, invece Tutto chiede salvezza e Fame d’aria mi sono usciti dal petto. Credo che siano in pochi a non aver mai vissuto la sensazione di fame d’aria. È qualcosa di universale che ci rende umani nel dolore che provoca.
Questo è il suo quarto romanzo pubblicato da Mondadori. Come valuta, in quanto autore, il rapporto con il proprio editor?
Non sono solito dare un giudizio negativo di questo rapporto. Sarebbe ridicolo, avendo lavorato io stesso come editor per vent’anni. Detto questo, ho avuto la fortuna di avere un editor che non ha mai fatto critiche su ciò che non andava nei miei libri. Abbiamo ragionato assieme su alcuni aspetti che sono stati modificati. Tutti si possono mettere in discussione, anche un autore. Sono io a essere più sadico nei miei libri, perché arrivo a fare anche venti versioni di un manoscritto in un mese.
All’inizio della sua carriera di narratore è capitato che un suo manoscritto venisse rifiutato da qualche casa editrice?
In Italia, se non si nasce in determinati ambienti, bisogna faticare parecchio per poter emergere in contesti culturali vicini alla scrittura. Io ho avuto la fortuna di lavorare in Rai per parecchi anni, cosa che mi ha consentito di farmi conoscere come scrittore. Ho ricevuto dei rifiuti all’inizio, al punto da chiedermi se avesse senso continuare a scrivere. Ma quando si ha a cuore la scrittura come dato fondativo del sé, si ritiene che potrebbe diventare importante anche per gli altri, e allora si ha il diritto e il dovere di continuare a provarci.