
RITORNARE ALLA VITA
È giusto obbedire alla notte
Matteo Nucci
Ponte alle Grazie pp.360
18€
Di Davide Rosti
“È giusto obbedire alla notte”, nuovo romanzo di Matteo Nucci, è un libro magistralmente scritto, che regala visioni e richiede attenzione: si deve stare attenti a non lasciarsi trascinare dallo stile della narrazione, si rischierebbe così di perdere l’occasione di vivere profondamente, come di rado accade nella vita, sentimenti radicali della nostra anima.
Protagonista è il “Dottore”, che ha un nome, ma i nomi non sono nulla o così pare, almeno nella prima delle tre parti in cui è suddiviso il libro, quella a cui l’Autore ci introduce mediante incessanti descrizioni capaci di far letteralmente apparire sotto i nostri occhi un microcosmo, sconosciuto più che dimenticato, di una Roma che pensiamo sia scomparsa da tempo.
Proprio come pensano quei pochi turisti, pur sempre romani, che si avventurano nell’ansa del Tevere per imparare a pescare le anguille, guidati dai fratelli anguillari Giulio e Cesare, figure rozze, ma dotate di un misticismo ancestrale. L’ambiente descritto è popolato da personaggi che scelgono di vivere in baracche e cloache lungo le fangose rive del fiume, lì sono giunti e non importa perché. Luogo d’incrocio di destini, ove tutto sembra aver avuto un inizio e in cui la storia deve circolarmente ritornare, è l’Anaconda: chiatta trasformata in trattoria.
In questo mondo emarginato, che i ritmi frenetici moderni non possono infettare, sceglie di fuggire il “Dottore”, uomo dapprincipio avvolto nel mistero e benvoluto da tutti, gli attribuiscono il merito di aver portato aiuto, ma scopriremo che non è un medico, dottore sì…ma in archeologia.
Perché si trova proprio lì? Perché ha scelto volontariamente di abbandonare tutto? il lavoro, la città, la sua stessa identità…per scoprirlo non rimane che continuare l’incanto della lettura che ci regala la bravura di Nucci.
Il libro infatti ci racconta dell’amore incontenibile di un padre che diviene straziante, anche per il cuore del lettore, se ha il “coraggio” di inoltrarsi nella narrazione della seconda parte, che a tutti gli effetti potrebbe essere un racconto a sé, dotato di vita propria, palpitante nel contenuto emotivo. Essa è composta, con una forma originale, dall’accostamento continuo di memorie di dialoghi e scene vissute in prima persona con la moglie Anna o la suocera, e intervalli dedicati a favole, storie allegoriche, ma soprattutto al passato recente al fianco di Teresa, la figlia piccola malata per la quale Ippolito Snell, alias il “Dottore”, cerca di animare fino all’ultimo un mondo fiabesco e ricco di conforto.
È in questa sezione che lo scrittore da il meglio di sé, poiché, delineando in modo cristallino istanti di vita vera, di amore paterno, di amicizia, quasi come si stesse assistendo ad una pièce teatrale interpretata con intensità struggente, ci conduce alla scoperta del passato, dei ricordi che lo compongono, a volte così tremendi da rimembrare per il “Dottore”, ma in grado di commuovere il lettore.
«….non riesco a starmene zitto, so che le mie parole sono evanescenti, so che lei non mi risponde perché sente, da qualche parte sente, che non c’è forza in quel che dico e che il mio entusiasmo è finto e che ho paura».
Ciò che accade al protagonista, ma lo si scopre lentamente, lo porta ha ad assumere in sé una concezione nullificante della vita: nulla ha senso, tutto è contingente; assistiamo al crollo dell’amore e dell’intenzionalità umana, inteso non come fallimento di un principio, bensì come impossibilità di trovare una salvezza, così come una ragione, a tutto ciò che di tragico accade.
Ma la vita deve rinascere, magari altrove ed essendo archeologo Ippolito va alla ricerca di luoghi originari, primigeni, ove conobbe l’incantevole anche durante l’orrore.
In questo senso capiamo retrospettivamente, nella parte conclusiva, perché scegliere proprio quei luoghi, perché condividere il tempo con quelle persone: per ritornare alla vita, dopo la rimozione e riappropriarsi di un’identità negata.

