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Dietro le quinte del Premio Bagutta – Intervista ad Andrea Kerbaker

Nonostante il difficile anno trascorso, la giuria del Premio Bagutta ha portato avanti i consueti obiettivi e a fine gennaio sono stati annunciati i vincitori dell’edizione 2021. Per l’occasione, abbiamo intervistato il segretario del premio milanese, Andrea Kerbaker, con il quale abbiamo parlato della storia, degli aneddoti e dei retroscena di questa particolare edizione di Bagutta. E non solo!

Il “cenacolo” del Bagutta (Fonte: artribune.com)

Vorremmo iniziare ricordando le origini del Premio Bagutta. È stato il primo premio letterario italiano e ancora adesso ha un notevole prestigio. Quali sono le caratteristiche che lo rendono tuttora così importante e quali le specificità che lo contraddistinguono rispetto agli altri premi, che oggi sono moltissimi?

Sì, sono moltissimi, ma il nostro è un premio che ha mantenuto le caratteristiche della sua fondazione.

Una sera un gruppo di artisti e scrittori che andavano a mangiare in una trattoria nel centro di Milano che costava poco, non sapendo bene cosa fare della serata, optarono per un premio letterario. Questo è il clima un po’ leggendario in cui nasce Bagutta nel 1926. Non solo è il primo premio in Italia, ma ha sempre mantenuto questo clima di amicizia. Vive di atmosfera. Un tempo aveva anche l’atmosfera del ristorante: c’erano le liste dei menù appese al muro, dietro alle quali un paio di giurati disegnavano una caricatura di qualcuno e tutti i presenti firmavano.

Ormai non ci ritroviamo più nella trattoria Bagutta, che ha chiuso da qualche anno. Ci siamo invece trasferiti da Francesco Micheli, imprenditore milanese e finanziatore del premio, che, oltretutto, ci offre il pranzo, perché la riunione di Bagutta resta conviviale e del tutto informale. È informale anche il modo in cui vengono candidati i libri: noi non accettiamo candidature dall’esterno, sono solo nostre. Insomma, è questo il clima che vive tutt’oggi: quello di un gruppo di amici che premia il libro che quell’anno gli è piaciuto di più, indifferente a tutto il resto, o quasi.

Com’è stato il passaggio da vincitore del premio Opera Prima con Fotogrammi nel 1998 a segretario?

L’esperienza come vincitore è stata inaspettata. Fui premiato da una giuria veramente notevole, personaggi che per me erano firme sui giornali o nei libri che leggevo, ma che mai avrei pensato potessero leggere un mio libro e per di più decidere di premiarlo. Io sapevo di essere candidato – cosa che normalmente noi giurati tendiamo a non dire per non creare aspettative – ma io lo sapevo e trepidavo. Alla fine è andata bene.

Diventare giurato poi è stato un passaggio non banale. Entrando in un gruppo affiatato di grandi intellettuali e volti celebri, in cui ero il più giovane, con 42 anni, mi chiedevo che cosa potessi mai dire a personaggi del genere, che conoscevano già tutto. Alla fine, era domenica e finimmo per rompere il ghiaccio parlando di calcio.

Ero già giurato da due o tre anni invece quando passai al ruolo di segretario. Ero molto amico del segretario storico del premio, Guido Vergani, un personaggio meraviglioso, oltre che un amico. Guido aveva sempre detto che avrebbe voluto che io entrassi in giuria per prendere un giorno il suo posto. Nell’ultimo periodo della sua vita, quando era già devastato dal tumore, andavo a trovarlo spesso e l’ultima volta che parlammo – morì il giorno dopo – mi consegnò il premio. Mi ha detto: «Mi raccomando, Bagutta tienimelo bene» ed è per questo che lo sento come un dovere di eredità; un passaggio, quasi dinastico, da Orio, fondatore del premio, a Guido a me.

C’è qualche episodio di questi anni che ricorda con particolare affetto o simpatia?

Qualche anno prima che io entrassi, la moglie di uno dei giurati mi raccontò che avevano deciso di far entrare dei giovani e delle donne in giuria, finendo poi per far entrare tre nuovi membri, nessuno di giovane età e tutti uomini, concludendo con: «A volte non sono tanto coerenti». Questo mi sembrò abbastanza divertente.

Invece c’è un aneddoto che io trovo molto commovente. Alla morte di Giovanni Raboni, Guido e io pensammo a Isabella Bossi Fedrigotti come presidentessa. La invitammo a mangiare un boccone a casa di Vergani e in quell’occasione, dopo che Guido le propose il ruolo, Isabella, che era precocemente rimasta vedova, disse: «Una decisione così e non avere mio marito con cui condividerla». Penso che si dicano tante cose un po’ ciniche dei matrimoni, però nei dettagli spesso si trovano delle cose molto belle.

Il Bagutta è sempre stato un premio informale in cui la giuria si ritrova e discute convivialmente. Come sono cambiate l’organizzazione e l’atmosfera del Premio nel 2020?

Siamo riusciti a vederci comunque due o tre volte a pranzo nel corso dell’anno, anche se non da Francesco Micheli. Distanti, tranquilli, senza fare grandi assembramenti. Quando, dopo l’estate, la situazione è peggiorata, le circostanze ci hanno consigliato di proseguire le nostre riunioni su Zoom. Il che non ha cambiato le modalità, ci sono stati comunque episodi simpatici. Intendiamoci: è dibattito serio e vero, ma di gente che si vuole bene e non ha motivi di tacere cose che legittimamente pensa.

Ci sarà, auspicando in tempi migliori, una cerimonia di premiazione ufficiale? In che forma ve la immaginate?

La cerimonia normalmente avviene con una cena a inviti da Micheli, con circa 150-200 persone, i cosiddetti “amici del premio”. Non ci sono autorità: come si è capito, siamo anarchici di natura e di tradizione. Parlano la presidentessa Isabella Bossi Fedrigotti, che fa un discorso iniziale; seguono due di noi che motivano i vincitori – la motivazione spesso è scritta, ma talvolta è improvvisata; infine, ovviamente, i vincitori. Tutto questo non è avvenuto quest’anno, però abbiamo voluto mantenere la scadenza del premio “come se”, perché ci sembrava importante cominciare a lavorare al prossimo in primavera. La cerimonia è rimandata a quando si potrà; magari non così ampia, probabilmente all’aperto, ma comunque simpatica. Ecco, l’aggettivo è proprio “simpatica”, non si tratta di una serata formale. Cara grazia che ci mettiamo una giacca e una cravatta, ma finisce lì.

Come siete arrivati a scegliere i due romanzi vincitori, rispettivamente, del Premio Bagutta per la narrativa, saggistica e poesia e del Premio Bagutta Sezione Opera Prima?

Prima di noi, ed. Sellerio

Partiamo dal primo, assegnato a Prima di noi di Giorgio Fontana

Il libro di Fontana ha delle ambizioni importanti, è quasi acrobatico per un autore così giovane. Scrive una saga, la cronaca di una famiglia nei suoi spostamenti nel tempo e nello spazio, e la scrive molto bene. Questo per noi è molto importante: anche se non sta nel regolamento e non ce lo siamo detti, prestiamo molta attenzione allo stile. È una cosa che tutti noi sentiamo molto. Spesso altre giurie preferiscono privilegiare i significati, i discorsi, gli impianti narrativi, cose che naturalmente esistono ed è giusto considerare, ma per noi dire che un libro è scritto male è una condanna a morte.

Prima di noi è scritto molto bene e ha una padronanza del linguaggio, della narrazione e anche del suo sviluppo storico che è sicuramente una certezza. D’altronde non era una sorpresa, non è il primo romanzo dell’autore, ma ha convinto il fatto non banale che Fontana abbia tenuto per quasi 900 pagine. Scrivere bene un romanzo così lungo vuol dire che la scrittura devi avercela dentro.

 

Ho provato a morire e non ci sono riuscito, ed. Blu Atlantide

Invece il Premio Sezione Opera Prima è andato a un autore giovanissimo, Alessandro Valenti, e al suo Ho provato a morire e non ci sono riuscito.

È il libro di un diciassettenne. Si trovava a scuola quando gli hanno comunicato che aveva vinto il premio, hanno dovuto riferirglielo a fine lezione. È una storia davvero originale. Racconta di un grande innamoramento, ma è un amore a distanza: lui a Verona e lei a Roma; nella loro storia c’è una bella ambiguità di fondo che ricorda un vecchio romanzo di Buzzati, Un amore, dove lei era una prostituta e lui, innamoratissimo, non capiva se era ricambiato o meno. Qui non abbiamo assolutamente una prostituta, si tratta di una ragazzina, ma c’è questa ambiguità in cui il ragazzo si perde e alla fine la storia ha una conclusione inaspettata. Valenti ha una fantasia notevole.

Sono sempre facili le votazioni, per l’uno e l’altro premio?

Innanzitutto le nostre votazioni hanno un limite, che però è anche una particolarità: noi non votiamo per iscritto né segretamente; votiamo ad alta voce, quindi gli orientamenti della giuria possono oscillare, a seconda di come va il giro, che è casuale, e di come si imposta la votazione. Non è comunque il caso di Fontana, la cui vittoria era evidente.

Per la Sezione Opera Prima avevamo altri due o tre libri. Da qualche anno le opere prime sono più difficili, tanto che abbiamo sentito il bisogno di mettere il limite ai 40 anni per evitare di prendere in considerazione, come è avvenuto, autori piuttosto anziani che non avevano mai scritto niente prima. Però non troviamo molti libri, non ce ne segnalano così tanti e spesso sono fragili, acerbi.

Il Premio Bagutta nasce come premio di appassionati, potremmo dire persone accomunate dal “piacere di leggere”, come l’ha descritto in altre occasioni. Crede che Prima di noi possa rientrare in questa categoria di libri, che rispondono, cioè, al piacere di leggere?

Io penso proprio di sì. La lunghezza può essere qualcosa di un po’ ostativo, anche se non mi pare. Al di là di questo, non è un libro complesso, è ben condotto e si lascia leggere, viene voglia di sapere cosa succede, non solo ai singoli personaggi, ma anche al proseguo delle vicende familiari. Perciò sì, fa trovare o ritrovare il piacere della lettura.

A volte ci è capitato di obiettare contro certi libri belli ma molto impegnativi, scritti per addetti ai lavori e molto sofisticati, tanto da farci dire: «Ma se noi premiamo una cosa del genere, il nostro pubblico cosa deve pensare?» Se il lettore si trova invischiato in una narrazione – o una raccolta di poesie – troppo difficile diventa un guaio: potrebbe arrivare ad evitare il prossimo libro premiato. Il premio dovrebbe sempre essere un invito a leggere per chiunque lo incontri in una recensione, un articolo di giornale o una fascetta.

L’ultima domanda nasce proprio da Prima di noi. Un libro ricco di temi e ricco anche di domande, alcune delle quali rimangono anche alla fine della lettura. Dunque vorremmo rilanciarle alcuni dei quesiti che ci sembrano il “lascito” del romanzo. Siamo o no determinati dalla nostra genealogia? Chi viene “prima di noi” ci definisce come persone?

Quando arrivi alla mia età, ti guardi allo specchio e vedi che drammaticamente somigli a tuo padre, quando non a tuo nonno, queste domande non te le fai neanche più. Fontana è più giovane di me ma queste cose le sa bene. Siamo figli di dove nasciamo; poi possiamo passare dal Friuli alla Lombardia e dalla Lombardia al vasto mondo, però siamo quella cosa lì. E Fontana, anche nell’impianto narrativo, ha voluto dirci questo. Il titolo stesso è programmatico: Prima di noi, che ci siamo adesso, ci sono stati questi signori che sono parte della nostra storia. A me sembra molto ben detto e molto sottoscrivibile.

 

Serena Di Giovine e Stefania Malerba