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Interviste

Il ruolo dell’editoria scolastica nell’educazione: intervista a Federica Giardino

In un articolo precedente del nostro blog, abbiamo intervistato Federica Giardino a proposito degli aspetti dell’editoria scolastica che ne fanno un settore del tutto atipico della nostra editoria.

In questa seconda intervista torniamo da lei per riflettere insieme su alcune tematiche chiave relative al ruolo che i testi scolastici possono avere nel campo dell’educazione.

di: Enrico Ferratini / Master Editoria 2020

Enrico Ferratini: L’editoria scolastica è a servizio dei programmi ministeriali scolastici, e dunque ha poco spazio per la libertà e l’inventiva. Tuttavia non c’è più un libro di Stato come in epoca fascista, ogni manuale è diverso e ogni casa editrice di scolastica avrà il suo profilo e la sua identità. Qual è allora il confine nei manuali scolastici tra limiti imposti e libertà? Qual è lo spazio di manovra all’interno del quale una casa editrice di scolastica può trovare il suo taglio specifico e magari la sua linea interpretativa, rispetto ai programmi e alla materia che rappresenta?

Federica Giardino: Certamente il libro scolastico risponde a vincoli precisi e da questo punto di vista è un unicum nel panorama editoriale: a un’occhiata superficiale questo potrebbe sembrare un difetto, visto che bisogna attenersi rigorosamente alle Indicazioni nazionali del ministero, ma diventa anche una tutela per gli studenti: i libri sono di fatto prodotti “certificati”, capaci di fornire gli strumenti e i contenuti necessari per il loro apprendimento. Se si pensa a certi libri autoprodotti da alcuni docenti (ci sono state sperimentazioni in tal senso) si capisce il valore del manuale scolastico di cui si fa garante l’editore. Lo spazio di manovra c’è comunque: pur dovendo includere i contenuti previsti dai programmi, ci sono tanti modi per differenziare un libro da un altro: penso soprattutto a manuali di storia e letteratura che inevitabilmente rispecchiano il punto di vista e la linea interpretativa di chi scrive. Ma sono anche tanti altri gli aspetti che denotano e danno un’impronta a un libro: dalla impostazione grafica al rapporto testo principale/didattica, dalla tipologia di approfondimenti e schede ai nessi con le altre materie fino alla quantità, alla tipologia e qualità dei contenuti digitali

E.F.: Pensa che i manuali scolastici, a seconda di come sono fatti, possano avere un loro ruolo educativo per i ragazzi a prescindere dagli insegnanti? In altre parole: chi si occupa di redigere i manuali scolastici ha o non ha un ruolo attivo nella formazione (per usare un termine enfatico) delle future generazioni?

F.G.: Assolutamente sì! È chiaro che il docente assume il ruolo centrale nella formazione degli studenti ma il manuale scolastico è un punto di riferimento. Pensiamo a quello che è successo in questo periodo di emergenza: i ragazzi sono rimasti a casa e abbiamo tutti sentito parlare di didattica a distanza, di videolezioni, di Zoom e Google meet e vari dispositivi digitali che permettessero la relazione docenti studenti. Si è parlato poco di libri ma in fondo quelli erano gli unici strumenti davvero presenti in tutte le case degli studenti. E quelli su cui probabilmente i ragazzi hanno studiato. In un paese come il nostro dove si legge molto poco i testi scolastici spesso sono gli unici libri che entrano nelle case delle famiglie. Se poi consideriamo che i docenti li usano costantemente per aggiornarsi ne capiamo ancora di più il valore.

E.F.:  Mi è sembrato di vedere che ultimamente si tende rispetto al passato a dare più spazio nei manuali scolastici di materie umanistiche, come filosofia o storia, ai riferimenti alle questioni di attualità. Quasi che lo studio del percorso storico debba sempre affiancarsi a una riflessione sul presente. Da quando è avvenuto questo cambiamento e che cosa significa? È stato un cambiamento spontaneo o una decisione consapevole? Vi è forse l’influenza degli approcci alle discipline anglosassoni o comunque non-italiani?

F.G.: Sì, è certamente una tendenza degli ultimi anni quella di attualizzare i manuali. Già a partire dagli anni duemila sono comparsi nei libri di scuola rubriche o schede con questo scopo. La tendenza non riguarda solo i testi di storia e di letteratura: per esempio in quelli scientifici spesso si cercano nessi con il mondo reale spiegando teorie e concetti matematici attraverso esperimenti. Nei manuali di storia sono frequenti i collegamenti tra il passato e il presente: l’obiettivo è far ragionare i ragazzi su qualcosa che riescano a sentire più vicino e farli riflettere sul fatto che certe rilevanze e certi temi di stretta attualità hanno origini antiche. E lo stesso approccio lo si applica nei manuali di letteratura dove troviamo spesso ipotetiche interviste ad autori del passato. L’idea è di stimolare la curiosità di chi apprende cercando di rendere più “viva” la letteratura. Alla base di tutto c’è quindi l’intento di stimolare la curiosità, di coinvolgere, di accendere la mente dei ragazzi.

E.F.:  Per tradizione, il nostro approccio alle varie discipline è fortemente storicistico. Per intenderci, non studiamo “filosofia” ma “storia della filosofia”. Mi pare, se non sbaglio, che sia stato Gentile nella sua riforma scolastica in epoca fascista ad aver posto le basi di questo approccio, dal momento che era un filosofo di stampo hegeliano. Ormai noi abbiamo talmente assimilato questo approccio da darlo per scontato: le cose vanno studiate nel loro contesto storico e seguendo il loro sviluppo nella linea temporale. Tuttavia, in altri paesi, come nel mondo anglosassone, le cose non stanno così. Vi è un approccio molto meno storicistico alle cose. Lei cosa ne pensa di questi due atteggiamenti? Pensa che abbiano entrambi punti di forza e di debolezza, o trova che uno dei due sia meglio dell’altro? Pensa che il nostro approccio alle materie possa lasciarsi influenzare da quello di altre tradizioni? 

F.G.: Questo è un grande tema. Ho studiato letteratura e filosofia secondo un approccio chiaramente storicistico e solo all’università ho cominciato a lavorare davvero sui testi. Per impostazione mi viene naturale pensare che un approccio diretto con i testi di autori del passato non sia per niente semplice ma in realtà se ben guidati dal docente i ragazzi potrebbero appassionarsi di più a quello che leggono e magari immedesimarsi, scoprire che nei testi ci sono richiami, pensieri ed emozioni simili alle loro. Forse bisognerebbe provare a cambiare qualcosa; un approccio esclusivamente storicistico rischia di allontanare buona parte della classe: si potrebbe provare a studiare un autore da più punti di vista: linguistico, psicologico, sociale, storico… Ma alla fine penso che la differenza la faccia l’insegnante: un docente preparato, motivato e capace di instaurare una relazione coi propri alunni lascia sicuramente una traccia al di là dell’approccio alla materia.

E.F.: I nostri programmi scolastici (penso soprattutto alle materie letterarie) sono cambiati estremamente poco nel corso dei decenni. Oserei dire che i programmi di letteratura italiana attuali nelle scuole superiori non siano molto diversi da quelli che potevano esserci negli anni ’50. Ho la sensazione che ci si sia da tempo immemore rinchiusi in un “canone” rigidissimo, che si tende a riproporre sempre invariato, ma che di fatto è riflesso di un’epoca passata. I nomi sono sempre quelli (Dante, Petrarca, Tasso, Leopardi, Manzoni, D’Annunzio, etc.), e anche l’interpretazione critica dei loro testi è sempre la stessa (la divisione fra pessimismo storico e pessimismo cosmico per Leopardi, e via dicendo). Per contro, un’enorme e fondamentale fetta di letteratura continua a venire ignorata. Già Dario Fo negli anni ’70 ironizzava sul fatto che i contenuti erotici e comici nella letteratura medievale venivano sistematicamente rimossi dai manuali (al punto che il poeta “Ciullo d’Alcamo” diventava “Cielo d’Alcamo”), dando di fatto un’idea totalmente parziale della letteratura di quel periodo. In generale, tutta la letteratura più “popolare”, dalle liriche tradizionali ai canovacci della Commedia dell’Arte, per quanto fondamentale per la nostra cultura, non ha mai trovato posto nel nostro “canone”. Persino un capolavoro universalmente celebrato come il Pinocchio di Collodi ancora non compare nelle nostre antologie di letteratura italiana per il pregiudizio, ormai chiaramente ridicolo, che è “soltanto” un libro per bambini. Lei cosa ne pensa di questo? Pensa che i manuali scolastici possano in questo senso avere un loro ruolo nello spingere un po’ in avanti e rendere nel tempo più elastica questa (chiamiamola pure così) tradizione? O anche questo è tutto nelle mani dei programmi ministeriali, ed eventualmente dei singoli insegnanti?

F.G.: In realtà le Indicazioni nazionali hanno rimodulato la distribuzione della letteratura nel triennio delle superiori con l’intento di dare maggiore peso al Novecento e agli anni Duemila. E infatti i manuali più recenti arrivano ad antologizzare scrittori contemporanei. In teoria l’ultimo anno dovrebbe essere dedicato al Novecento, oltre che a Leopardi. Credo che il problema non sia tanto nei libri ma più legato all’organizzazione scolastica: si arriva sempre alla fine del triennio con grande affanno e quasi sempre in ritardo rispetto al programma. Perché? Non lo so ma evidentemente gli insegnanti tendono a soffermarsi sui grandi classici schiacciando inevitabilmente il Novecento. Forse è anche più difficile fare delle scelte: fino alla fine dell’Ottocento esiste un canone letterario da cui difficilmente ci si discosta (con buona pace della letteratura popolare e della Commedia dell’arte!). È proprio il Novecento che darebbe più libertà di manovra ma come dicevo credo che il problema sia il tempo a disposizione per fare tutto.

E.F.: Ultimamente i manuali scolastici (e tutto il sistema scolastico, a dire il vero) sta ponendo moltissimo l’accento sull’utilizzo delle nuove tecnologie e delle loro potenzialità specifiche come mezzi aggiuntivi a quelli tradizionali per trasmettere il sapere. Personalmente sono molto dubbioso sul fatto che sia necessariamente un buon segno. I ragazzi sono già assuefatti e perennemente circondati nella loro quotidianità dagli schermi digitali, che a loro volta hanno dimostrato di avere ripercussioni pericolose sulla loro (nostra, a dire il vero) capacità di concentrazione e approfondimento delle informazioni, oltre che sull’empatia. Personalmente ho la sensazione che la scuola e tutti gli strumenti che ha a disposizione, compresi i manuali scolastici, dovrebbero invece, proprio oggi, dare più risalto possibile alle cose diametralmente opposte: l’apprendimento del nostro patrimonio culturale attraverso l’interazione umana con l’insegnante, il racconto orale come strumento privilegiato per la trasmissione del sapere… So tuttavia che lei crede molto invece nell’importanza di includere i nuovi strumenti multimediali nei nuovi testi scolastici. Quali sono secondo lei i benefici che possono portare? 

F.G.: Sono convinta che per fare una buona scuola occorrano buoni insegnanti. Questa è la base da cui partire. E per me un buon insegnante osserva la propria classe, instaura una relazione e riesce nei limiti del possibile ad adattare il proprio modo di insegnare a chi ha di fronte. Non credo che il digitale da solo possa fare miracoli: dietro ci vuole una buona progettazione pedagogica e didattica altrimenti è del tutto inutile. Però se può aiutare a leggere un testo (penso ai libri con sintesi audio per DSA), a studiare e memorizzare meglio (dalle mappe interattive a diverse tipologie di esercizi più “divertenti” rispetto a quelli tradizionali), a rendere più coinvolgente una lezione (magari attraverso la visione di alcuni video, non necessariamente in classe ma anche a casa) perché non provarci? Io credo che più strumenti hai a disposizione meglio è. Sta poi all’insegnante calibrare l’utilizzo delle tecnologie e capire cosa serve e cosa no. L’importante è trasmettere conoscenze e competenze, e se con il digitale raggiungi qualche studente in più perché non provarci?