
Romanzo autobiografico o imperdonabile aneddotica?
di Maria Ceraso
Vittorio Sermonti
Se avessero
Collana: La Biblioteca della Spiga
Garzanti, 2016
224 pagine, 18 €
«Ma ho perso il filo, com’è vero che un racconto di vita è un inestricabile ordito di biforcazioni, una crittografia per lettori che abbiano molto tempo da perdere».
Vittorio Sermonti è stato traduttore, dantista, drammaturgo, attore, giornalista, docente accademico. A ottantasei anni però sente la necessità di sperimentarsi in una nuova veste: quella del romanziere. Se avessero, suo romanzo autobiografico edito da Garzanti, è entrato nella cinquina finale del premio Strega 2016. L’autore stesso definisce questo scritto «opera ultima», «la storia della mia vita dai 15 anni agli 84», ma non si tratta di un semplice memoir (o di un’ucronia, come potrebbe suggerire il titolo): in Se avessero Sermonti non rinuncia alla sperimentazione.
Si parte da un episodio: siamo nei primi di maggio del 1945 e tre giovani partigiani entrano armati di mitra nel villino al numero 41 di via Domenichino a Milano, intenzionati ad uccidere il fratello maggiore di Vittorio, il suo frater maximus (FM nel libro). Nessuna tragedia si verificherà quel giorno, ma l’evento, fulcro del racconto, serve a dare un ordine a ricordi in cui regna «un disordine fazioso e devastato», a una mente tormentata dai «soprusi della memoria». La narrazione sembra sempre perdersi in mille sentieri diversi, che si ramificano e allontanano sempre di più dall’origine, per poi magicamente tornare alla fonte, al “se avessero”.
Sermonti ci racconta prima di tutto di un’Italia diversa, un’Italia dove si contavano «poco meno di 45 milioni di fascisti» e che dopo il 25 aprile sembra voler nascondere questa verità, e poi di una famiglia complicata, dove fascismo e antifascismo convivono in modo contradditorio.
Lo stesso autore descrive la propria «mutazione»: dall’adesione giovanile al fascismo a una sorta di «metacomunismo tragico», ma non solo. Nella narrazione si fanno spazio le amicizie passate (e in alcuni casi ancora vive), gli amori più o meno infelici (di cui uno, Occhi Pescosi, è una sorta di destinatario privilegiato), la passione per la lettura e la letteratura, il teatro, la musica, tutto declinato in quella che l’autore definisce ironicamente «imperdonabile aneddotica».
Sara Taglietti scrive (in un articolo apparso sul Corriere della Sera): «[Sermonti] guarda alla sua vita in un dopoguerra infinito con gli occhi di quel quindici-sedicenne che è stato e con la scrittura di oggi, raffinata, ricca di digressioni, con frequenti rimandi a pagine precedenti, capace di mescolare la lingua aulica del letterato al lessico del ragazzino di allora, di trovare la giusta distanza, la misura perfetta, tra emozione e distacco.»
Lo stile è sicuramente funzionale al «flusso di coscienza» (Mirella Serri, La Stampa): si alternano vivacemente avverbi insoliti («sdilinguitamente») ed esclamazioni vicine al parlato («Momento!»), termini rari, quasi buffi («caravanserraglio», «oluturie») ed espressioni grammaticalmente errate («mi torna sù»). Gli eventi si susseguono senza seguire un ordine cronologico ma secondo l’umore dell’autore, che tenta, attraverso l’interessante aggiunta di notazioni storiche, «di aggiungere – conferire un po’ di profondità, non so, di terza dimensione a questa scrittura privata». Il periodare è ipotattico, spesso molto pesante, la punteggiatura volutamente scarsa. Ma tra libere associazioni ed ellissi l’io narrante non dimentica di rivolgersi al lettore, con un simpatetico “tu”: così Sermonti tutela la propria scrittura dall’incomprensione, tenendo conto del principio della leggibilità.
Così il soggetto dell’opera, «l’io che scrive in quanto io che è scritto» non risulta «piuttosto odioso» come Sermonti teme: riesce infatti a rappresentare una generazione di italiani che, nel sottosuolo dell’esistenza, hanno ben salde le radici della storia.

