Cervo ti Strega cinquina Liguria
Mondo Editoriale

Cervo ti Strega – Cronache della cinquina dalla Liguria

E svuotarmi così d’ogni lordura
come tu fai che sbatti sulle
sponde tra sugheri alghe
asterie le inutili macerie
del tuo abisso

Eugenio Montale, Ossi di seppia

Arrivo a Cervo nel primo pomeriggio, e questo è il primo luogo in cui mi fermo. Una proda di ciottoli che degrada scorbutica verso il mare, il muraglione di mattoni alle spalle accoglie la targa dedicata a Montale. Cinque versi di una poesia minore di Mediterraneo, sezione intermedia degli Ossi di seppia.

Cervo

La spiaggia è presa d’assalto da pensionati rosi dal sole, torme di bambini urlanti si equilibrano sulle pietre. Secchiello e retino in mano, braccano granchi e polpi negli anfratti schiumosi tra gli scogli. Dietro, oltre il muraglione, sale e risplende il borgo di Cervo, con le sue case abbarbicate sulla collina, arrampicate intorno alla chiesa di San Giovanni Battista. Dedicata al patrono del paese, è in verità conosciuta come Chiesa dei Corallini, perché la sua costruzione fu finanziata con i proventi della pesca del corallo, lo stesso corallo che nel XIV secolo attirò le scorrerie dei pirati saraceni.

Oggi l’economia del borgo è rivoluzionata, non si basa più sul pescato. Fioriscono bed and breakfast per i budelli del centro, inerpicati per le scale più assurde, giustificate dal panorama mozzafiato che assicurano le terrazze. È sufficiente aggirarsi pigramente qualche minuto su e giù per la collina per incrociare tedeschi e russi, qualche inglese e, in bassa stagione, anche una discreta delegazione belga. Gli abitanti si aggirano sui duemila, tra giugno e settembre. Il resto dell’anno rasentano la centinaia.

Da sei anni il premio Strega ha eletto Cervo la città della cinquina. Da sei anni gli autori finalisti si ritrovano qui, sul sagrato della Chiesa dei Corallini, per parlare di libri in una torrida sera di fine giugno. Ci sono editor e addetti stampa, giornalisti e personalità di spicco del panorama culturale, e poi il direttore della Fondazione Bellonci, qualche carica politica minore e ovviamente loro, gli scrittori. Arrivano solo all’ultimo, avvolti dall’oscurità.

Certo di questo, mi avvio verso il paese che è già scuro. Lungo l’Aurelia sorprendo, accostata appena al marciapiede, una Classe A opaca. Il motore è acceso e il guidatore ha un’aria scocciata, picchetta le dita sul volante. La ragazzina sgorga da un angolo buio della statale, è fasciata in un lungo abito blu notte e stringe la pochette forte contro il busto. Non può avere più di diciotto anni, il guidatore è sulla cinquantina. Le apre la portiera con sufficienza, senza neppure guardarla. Partono sgommando, lasciando una virgola nera sull’asfalto.

Ritrovo la macchina una decina di minuti dopo, nel parcheggio a pagamento della vecchia stazione, dove i treni ora non fermano più. Mi arrampico sino alla piazza della chiesa, grandi cartelli gialli mi indicano la via per non perdermi tra i budelli. Pago dieci euro al baracchino, un ragazzetto brufoloso mi mostra quali sono le file riservate e mi prega di seguire le direttive dei fotografi durante la serata, alzarsi se ti chiedono di alzarti, abbassarsi se ti devi abbassare, abbandonare addirittura il posto, se necessario. Mi indica anche il banco del liquore Strega, con annessi assaggi gratuiti di amaretti. La libreria invece è in fondo alla piazza: trovi tutti i libri finalisti – mi dice – per il firmacopie finale.

Mi accomodo su una seduta laterale, poco oltre la metà della platea. Il palco, bianco perla, è distante una decina di metri, ammassato contro gli scalini della chiesa. Intravedo sette poltrone, i cinque finalisti, il segretario del premio e il presentatore. Con solo qualche minuto di ritardo i riflettori si accendono, e compaiono gli autori. Nascosti sul lato della piazza, sono invitati a salire sul palco in rigoroso ordine alfabetico: Cibrario, Durastanti, Missiroli, Scurati, Terranova. Questo pavido ordinamento è lo stesso che scandirà l’intera serata: seguendo l’alfabeto prima gli studenti di cinque diversi liceo del territorio leggono la loro recensione dei libri finalisti, poi seguendo l’alfabeto gli autori commentano gli elaborati dei ragazzi, infine seguendo l’alfabeto il presentatore pone tre domande lampo ad ogni autore.

Il pubblico apprezza soprattutto gli aneddoti da giocoliere di Missiroli e i moniti antifascisti di Scurati. Sono perlopiù donne, tra la cinquantina e i settanta. Ingioiellate, con la pelle cadente e le vocali strascicate, conoscono a malapena i nomi dei loro paladini. Prima dell’inizio confrontavano le loro ultime letture, ironizzando sui vicini di ombrelloni zotici che divorano un giallo scandinavo diverso ogni anno. Si dicevano sinceramente contrite per la condizione del maestro Camilleri, arricciavano le labbra smunte e chinavano il capo. Dopo l’ennesima ironica uscita missiroliana, sento distintamente una di loro domandare ad alta voce chi sia l’omaccione simpatico con la barba e il blazer. Cerco con lo sguardo la ragazzina della Classe A, ma pare che la piazza intera sia precipitata in un gorgo di austerità e compostezza, e se la scorgessi tra la folla probabilmente la vedrei già adulta, con il trucco marcato e i primi accenni di zampe di gallina ai bordi degli occhi. Anche il rachitico ragazzo brufoloso del baracchino, con la maglietta bianca dello staff che gli pende abbondante da ogni lato, mi appare ora una navigata e tornita guardia del corpo.

Profondamente scosso da questi avvenimenti, l’interludio jazz che spezza la serata mi scivola addosso accompagnato da un lieve sentore di inadeguatezza. Rinsavisco giusto in tempo per gli applausi finali, la menzione degli sponsor e i ringraziamenti di rito. Scurati riemerge dal fondo della piazza, dove si era rintanato a fumare una sigaretta, e raggiunge i colleghi per il firmacopie. La fila è già chilometrica, lui e Missiroli sono subito presi d’assalto da giornalisti, curiosi, amici di vecchia data, carampane. Desisto dal mio originario intento: una dedica sulla mia copia di Fedeltà, magari con la fioca prospettiva di una successiva intervista. Abbandono la piazza con una punta di sollievo, ridiscendo la collina fino all’Aurelia e mi piazzo sotto la pensilina scrostata che indica la fermata notturna della corriera. È in leggero anticipo, due ore dopo sono a casa.

La sera successiva vengo invitato a un evento in centro a Genova. Un vecchio compagno di studi mi assicura che la serata fa al caso mio. Lungo gli ex depositi della Darsena, dove un tempo venivano costruite le chiglie delle navi di mezza Europa – mi spiega – hanno allestito un mercato sostenibile. Tutti prodotti fatti a mano, da imprese del luogo. E dovrebbe esserci pure musica dal vivo e da bere. Riluttante, spinto più dal dovere di non mancare l’appuntamento con un vecchio amico che dalla prospettiva della serata, accetto.

Quello che trovo è diverso da ciò che aspettavo. Innanzitutto il mio amico è ingrassato, e non poco, dai tempi dei nostri studi; in secondo luogo non c’è alcuna traccia di musica dal vivo. Al centro del magazzino, sopra un dehors che tradisce la sua origine di negozio di piante, gli organizzatori hanno posto una console. Quando arrivo il set è appena iniziato e la dj, una ragazzetta tutta pepe dai capelli rossi e il rossetto pronunciato, spara la sua musica vaporwave per l’intero magazzino. Vetrate ed impalcature vibrano tutte, e se si passa vicino alle casse pare che il loro battito ti respiri dentro.

Il mercato è effettivamente ben concepito, colmo di chincaglierie alternative sovrapprezzate. Litografie, camicie di lino e bracciali di cuoio vanno per la maggiore. Molti comprano, quasi tutti in contanti, ma qualche banco accetta anche la carta di credito. Gli avventori sono per la maggior parte della mia età, vestono largo e con un sentore vintage. Quelli che non sono in pista passeggiano placidamente per gli stand, trascinando i lisi jeans oversize per il deposito. Si organizzano in crocchi e si agglomerano di fronte al chiosco di panini o a quello della birra. Il mio amico, con la sua camicia slavata dalla fantasia anni settanta è ora sotto cassa, ma non balla. A pensarci bene nessuno balla, non si può dire un ballo. Le donne ondeggiano lentamente le anche mentre gli uomini contraggono e rilassano compulsivamente sempre lo stesso muscolo – spesso il bicipite o più raramente il quadricipite femorale – adattando la loro pulsione a quella delle casse.

È osservando questa danza che me ne rendo conto. L’epifania mi crolla addosso come una maledizione e non riesco a liberarmene. Cerco disperatamente di cogliere le differenze tra le mie due serate, ma non ci riesco. Vedo solo sfumature differenti, nelle due esperienze, perché il loro fulcro, il cuore, è lo stesso. Il centro propulsore dei due pubblici, i borghesi incartapecoriti di Cervo e gli hipster stroboscopici della Darsena, è condiviso. Ad animarli è la medesima cieca spinta centrifuga, da loro verso l’esterno, da un’identità piena e acquisita a uno schema impalcato, costruito su misura per contenere le loro più intime manifestazioni. Il bisogno di espressione viene così incanalato in una struttura già acquisita e si esprime mediante un codice condiviso, che si ripete sempre uguale a sé stesso. Le risatine sommesse alle battutine di Missiroli, gli applausi accorati alle invettive di Scurati, i video al ralenti del dj set da postare su instagram, i tatuaggi di Frida Kahlo esibiti con fierezza, appartengono in definitiva allo stesso linguaggio. Un linguaggio che è in fondo un anti-linguaggio, perché il suo fine non è la comunicazione, ma il riconoscimento. Ti vedo, i tuoi connotati culturali sono esposti, luccicano, e allora ti riconosco. Sei anche tu dentro qualcosa, un contenitore condiviso.

Se devo spiegare, dopo sei mesi di frenetico e sterile studio dei premi letterari italiani, cosa essi siano, mi pare che questa sia la definizione più calzante. Non si riflette mai abbastanza sulle parole. Il sinonimo più abusato di premio non è forse riconoscimento? Lo Strega è lo specchio non solo delle competizioni letterarie italiane in toto, ma della società culturale che in quelle competizioni fermenta e si esprime. E tutto quello che vuole questa società, ciò che agogna più avidamente, è questo riconoscimento. Una fascetta gialla sulla copertina, la certezza di essere riconoscibile e di rappresentare qualcosa per qualcuno, anche fuori dalla carta stampata, anche sulla piazza di un borgo di cento abitanti in una sera d’estate.

I premi letterari sono questo, e nient’altro. La letteratura è il mare di Montale, che sprezzante deride il poeta destinato a perire prima di lui, restando solo un piccino fermento del cuore dentro il battito eterno del Mediterraneo. E i premi letterari sono l’ultima e mortale onda di questo mare, che disperata sbatte sulle sponde di Cervo le inutili macerie del suo abisso.

Luca Biondo

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