Facce di colore
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Facce di colore – Recensione | Master Editoria

Facce di colore è il libro d’esordio della giovane scrittrice afroamericana Nafissa Thompson-Spires, pubblicato nel 2018 con il titolo Heads of colored people. Black Coffee edizioni, la casa editrice indipendente con sede a Firenze e specializzata in narrativa nord-americana,  lo presenta per la prima volta in Italia a gennaio 2020 grazie alla traduzione di Massimiliano Bonatto.

Il libro viene pubblicizzato su “La Lettura” il 19 gennaio, attraverso un racconto inedito – La mia vita tra pasticche e dottori − in cui la scrittrice parla delle sue peripezie con il dolore fisico dell’endometriosi e con il dolore mentale della depressione che ne è derivata. La Thompson racconta della vita con droghe e antidepressivi, usati per calmare il martellante e incessante desiderio di morire, fino alla decisione sofferta di sottoporsi a un’isterectomia. Una biografia che rimanda subito alla mente la protagonista di diversi racconti all’interno del libro, Fatima.

Il libro

In formato tascabile, il volume ha una copertina accattivante, per il forte colore rosso che fa da sfondo alle sagome solo tracciate dei volti di uomini e donne di colore, circondati da una cornice bianca, elemento grafico tipico della casa editrice. L’immagine richiama così il titolo, che in lingua originale è Heads of colored people. In una nota a fine libro è la stessa autrice a denunciare l’ispirazione avuta dall’omonima serie di bozzetti creata da James McCune Smith apparsa nell’Ottocento sul quotidiano abolizionista “Frederick Douglass’s Paper”, che teorizzava su cosa avrebbe significato per i neri d’America avere dei diritti di cittadinanza. La Thompson invece ragiona su cosa significa essere neri oggi, una volta conquistati pieni diritti seconda la legge. Nell’edizione italiana il titolo è stato tradotto con Facce di colore, perdendo quel rimando che in Italia è però pressoché sconosciuto.
Nella quarta di copertina non c’è alcuna presentazione della scrittrice, la cui breve biografia si trova nell’aletta posteriore, ma un estratto del primo racconto, in cui l’autrice si rivolge direttamente al lettore in una sorta di metanarrazione che funge bene da riassunto del libro.

«e cos’è un bozzetto se non una sagoma tracciata a matita o a parole? E cos’è una narrazione corale nera se non il racconto di un solo grado di separazione, un abbozzare lo stesso dolore più e più volte […] ?».

Lo stile di Facce di colore

I racconti sono quasi sempre ricchi di particolari che rimandano al nostro tempo, dai video asmr di gran moda su YouTube, alle menzioni di fumetti o trapper, ma che lasciano spazio alle tantissime personalità della letteratura afroamericana e nera della vecchia generazione.
Breve e scorrevole, ogni narrazione è portata avanti con una scrittura leggera e ironica, tanto da sembrare un racconto quasi superficiale ma che nasconde tra le righe un profondo dolore che ha radici nella storia comune di ogni personaggio, che solo per avere un diverso colore della pelle deve giustificare agli altri la sua libertà. Ogni protagonista si trova a dover così rivendicare il suo essere diverso anche all’interno della comunità afroamericana stessa, come Riley, che appare nella prima storia Facce di colore: quattro bozzetti chic, due sagome di gesso e niente scuse, che solo per la tinta bionda dei suoi capelli e per le lenti azzurre viene additato come uno «zio Tom che odia sé stesso», o un fratello senza «lealtà alla causa».
La stessa rivalità è rappresentata nel racconto Belles lettres in cui le madri delle uniche alunne di colore della prestigiosa scuola privata Westwood intraprendono una corrispondenza, che se inizia con toni moderati e rispettosi sfocia poi in offese esplicite: «in te traspare una miscela esplosiva di tracce residue di ghetto e spocchia negroide». Una menzione speciale merita il primo racconto che si dimostra un piccolo gioiello di stile, dove l’autrice entra nel racconto e conclude la storia con un colpo di scena descritto in modo raffinato. Ma è il racconto Una conversazione sul pane, posto come penultimo della raccolta, che rappresenta forse il cuore del libro: due studenti si confrontano sulla scrittura di un compito di antropologia, capendo l’impossibilità di descrivere un gruppo di neri del sud che scoprono il pane senza generalizzare o senza sembrare «un antropologo bianco».

L’autrice

Nafissa Thosmpson Spires nasce a San Diego, in California, e consegue un dottorato di ricerca in inglese per l’Università Vanderbilt di Nashville per poi completare un master in scrittura creativa all’Università dell’Illinois. Ora insegna come assistente universitario proprio in Illinois, dove vive con il marito. Ha scritto per diverse riviste e giornali prima di pubblicare la sua prima raccolta di racconti, per cui è stata candidata al National Book Award nel 2018, conquistandosi i favori della critica che l’ha spesso paragonata ad autori come Paul Beatty e Junot Dìaz.

Laura Volpi