
Godland – Nella terra di Dio
Una silenziosa e drammatica pellicola che si inserisce di diritto tra i grandi titoli del cinema scandinavo
Proiettato a conclusione della rassegna della recente edizione de I Boreali, Godland – Nella terra di Dio rappresenta uno dei film più interessanti del 2023, malgrado la scarsa diffusione nelle sale cinematografiche italiane all’inizio dello scorso anno.
Si tratta della perla simbolista del regista islandese Hlynur Pálmason, fotografata dalla sua fedele collaboratrice Maria von Hausswolff e musicata in modo minimale da Alex Zhang Hungtai. Al suo terzo lungometraggio (si ricordano Vinterbrødre, 2017 e A White, White Day – Segreti nella nebbia, 2019) il regista regala una riflessione antropologica e spirituale sullo sfondo di una terra desolata e metafisica che è il motore su cui si sviluppa l’intera pellicola.
Alla fine del XIX secolo, il prete luterano Lucas (interpretato da Elliott Crosset Hove) viene mandato nella remota isola d’Islanda, antico dominio del Regno di Danimarca, per supervisionare la costruzione di una chiesa. Inizia così la prima parte del film, forse quella più incisiva, un’odissea drammatica in cui il protagonista è costretto ad affrontare le avversità di una Natura sublime, tanto amena quanto distruttiva, e dei suoi accompagnatori autoctoni, guidati dall’esperto e burbero Ragnar (interpretato da Ingvar Eggert Sigurðsson) che, sebbene conosca il danese, non vuole piegarsi alla lingua di colui che è venuto a “colonizzarli”. Fin dal principio viene messa alla prova la fermezza spirituale e culturale di Lucas, fotografo e studioso, tanto interessato a scoprire e cristallizzare nel tempo le peculiarità di una terra inesplorata quanto giudicato e respinto dalla stessa Natura che non accetta di essere dominata (guadi e salite troppo difficoltosi, scarso foraggio per i cavalli, eruzioni vulcaniche). La missione del prete inizia così a vacillare, oppressa da una situazione ostile e soffocante e rimarcata dall’espediente tecnico del formato quadrotto con angoli arrotondati che intrappola visivamente la fede del protagonista e le sue energie fisiche (durante l’arco delle riprese l’attore protagonista ha perso 12kg).
Dopo un climax ascendente di poesia e angoscia, Lucas arriva a destinazione, iniziando a fare i conti con la costruzione di una chiesa che forse, a questo punto, non gli è più cara. Se nella prima parte Pálmason si concentra maggiormente sul rapporto tra il prete e la Natura selvaggia, nella seconda il dualismo principe dell’opera si misura nella conoscenza della comunità islandese, in particolare col proprietario terriero Carl e le sue figlie, Anna e Ida. Contemporaneamente all’erezione della chiesa, la pace spirituale di Lucas si affievolisce sempre più, accostandosi a quella che lo storico dell’arte austriaco Hans Sedlmayr definisce, in un suo profetico saggio, «perdita del centro» (Verlust der Mitte, 1948, edito in Italia da Rusconi, 1975, e Borla, 1983), cioè perdita di Dio, tema già affrontato sul grande schermo da Ingmar Bergman ne Il settimo sigillo (1957). Non mancano dunque vari riferimenti alla poetica del Maestro svedese, o alcune soluzioni che strizzano l’occhio al cinema di Carl Theodor Dreyer e Werner Herzog, citazioni calibrate al servizio di una lenta e graduale sconfitta interiore del protagonista.
I barbari islandesi e la Natura selvaggia e ostile, «che non hanno bisogno di nessuno», si inseriscono in un discorso antropologico in bilico tra la tragedia e un’identità culturale che fatica a instaurarsi nella comunità. Su questo filo sottile il regista restituisce due parabole contrapposte: quella di Lucas, in continuo disfacimento morale, e quella di Ragnar, in conflitto con una presa di coscienza mentre rivendica la propria volontà di avvicinarsi a Dio. Ma cosa può quest’ultimo di fronte al rancore e al desiderio di supremazia insiti nell’uomo? Pathos che culmina con la confessione in lingua danese di Ragnar, suggellando un rapporto tra amore e odio, tra realtà e trascendenza, che solo il tempo e la Natura possono disgregare.
L’opera di Pálmason analizza così un percorso morale e spirituale nella cornice di quella «terra di Dio», o “terra malformata” (traduzione del titolo originale in danese e islandese), che nessuno può sopraffare: uno scenario «terribilmente bello, terribile e bello» in cui l’uomo vedrà la sua fine, divenendo in eterno parte organica di quella stessa Natura immortale.
Francesco Marinello

