Diario del Master

Islandesi che sanno raccontare: tradizioni e traduzioni

Dall’1 al 3 marzo si è svolta la decima edizione de I Boreali Nordic Festival a Milano. In questo primo articolo della nuova rubrica Diario del Master – attraverso la quale vi offriremo una finestra sugli eventi più affascinanti dell’editoria italiana – vi presentiamo uno degli incontri del festival targato Iperborea a cui abbiamo partecipato.

La forma novellistica, nonostante i grandi fasti del passato, ha oggi uno statuto piuttosto precario nell’editoria italiana. Un racconto ha bisogno di stare all’interno di una raccolta, e anche allora attira meno di un romanzo, richiedendo strategie ingegnose per competere sul mercato. Ancora più difficile sarà dunque piazzare dei racconti brevi scritti dagli scaldi – poeti che tra il sec. IX e il XV venivano accolti presso le corti dell’Islanda medievale –, sfida che Silvia Cosimini ha brillantemente superato con il libro L’Islandese che sapeva raccontare storie, pubblicato il 28 febbraio da Iperborea. La traduttrice l’ha presentato il 3 marzo durante il festival de I Boreali nell’intervento intitolato “Islandesi che sanno raccontare: tradizioni e traduzioni”: un viaggio attraverso il Medioevo scandinavo tra storia, filologia germanica e iconografie nordiche che ha presentato al pubblico un genere letterario non familiare, ma riconoscibile.

Il nuovo libro della collana “Iperborei” è infatti una raccolta di quattordici þættir, racconti brevi che affollano i manoscritti medievali islandesi, come lo splendido Flateyjarbók, intervallandosi alle saghe e costituendone un’espansione che approfondisce un personaggio, un contesto o un evento storico. Dei veri e propri spin-off, dunque, che isolati dalle saghe perdono parte dei loro rimandi ma, se raccolti insieme, permettono al lettore moderno di comprendere molti aspetti della politica e della cultura del Nord Europa del XIV secolo. I þættir raccolti da Cosimini seguono islandesi che si spostano in cerca di fortuna tra la Scandinavia, la Groenlandia e le corti dell’Europa mediterranea; non hanno una monarchia e non sanno come ci si comporti davanti al re, ma riescono sempre a ottenere prestigio grazie all’astuzia, all’intraprendenza e, soprattutto, all’abilità nel raccontare storie, come si legge nel þáttr che dà il titolo alla raccolta. E ogni tanto anche loro imparano qualcosa dai re che incontrano: la curatrice l’ha dimostrato leggendo la bella storia in cui Eysteinn di Norvegia riesce a lenire le pene d’amore di Ívar Ingimundarson non con doni o ricchezze, ma invitandolo a conversare insieme, «perché a volte succede che i dispiaceri si alleviano quando se ne parla».

Far parlare questi islandesi nella nostra lingua è «una cosa che non si può fare ma che si fa», come afferma Cosimini a proposito del difficile mestiere della traduzione. Occorrono spesso scelte che allontanano il testo dalle intenzioni dell’autore – o del copista – per avvicinarlo alla comprensione di un lettore dalle abitudini letterarie molto diverse. Formule e ripetizioni diffusissime nei manoscritti vengono omesse per non interrompere la lettura, i tempi verbali discontinui sono uniformati e un’attenzione particolare al lessico distingue i dialoghi dei re da quelli di personaggi semplici come l’adorabile Hreiðarr lo Sciocco. In questo modo L’Islandese che sapeva raccontare storie, avvolto dall’inconfondibile veste libraria degli “Iperborei”, può entrare nei nostri scaffali come un prontuario di storie veloci, immediate e vicine, nonostante provengano da tempi e luoghi lontani.

 

Francesco Tomasello