Interviste

Leggere “Padre padrone” 50 anni dopo

Padre padrone (Prima edizione Feltrinelli, collana Franchi Narratori, Aprile 1975. Ora in Mondadori Oscar, 2024) di Gavino Ledda, memoir autobiografico degli anni Settanta divenuto un classico, compie 50 anni. Oltre un milione di copie vendute solo in Italia e un enorme successo internazionale con traduzioni in più di quaranta lingue. Il film omonimo dei fratelli Taviani, Palma d’Oro a Cannes, lo ha consacrato a testo cardine dell’emancipazione attraverso lo studio. Gavino strappato dalla scuola all’età di 6 anni, costretto da un padre autoritario a diventare pastore, resta analfabeta fino ai vent’anni. Voglia di riscatto, forza d’animo e incrollabile determinazione lo porteranno invece a laurearsi, a impadronirsi della parola per scrivere.

Gavino Ledda ha 87 anni. Vive ancora a Siligo, il paese in cui è nato.

La nostra è stata un’intervista fatta di molte telefonate.

Di Gavino Ledda mi hanno colpito la voce energica, un dinamismo interiore percepibile anche a distanza, la fierezza, e un uso della parola che trascende quello comune. Abbiamo parlato di oppressione e riscatto. Di morte e di speranza. Di A.I. e di Natura. Di poesia e di scienza. Di scuola e Stato. Di Padre padrone del ‘75 e di Padre padrone mutato, a cui l’autore sta lavorando.

Quando ha capito che sarebbe diventato scrittore?

Lo sapevo ben prima di mettermi a scrivere Padre padrone. A dimostrarlo c’è la mia storia, c’è tutta la mia vita. Il bisogno di scrivere era dentro il mio ego, una cosa custodita gelosamente ma che sapevo.

Essere strappato dalla scuola è un qualcosa che ti rimane dentro. La cosa più dolente è che non si trattava solo di uno strappo dalla scuola, ma anche dagli amici e soprattutto dalla Madre. Ma non me la sono presa con nessuno, e mi son detto: appena raggiungerò la matura età, sarò libero dal solco del padre padrone e incomincerò a studiare per scrivere. Forse sono stati proprio gli animali i primi a dirmi che per scrivere bisognava impadronirsi bene dell’italiano, del latino e del greco; è con loro che ho fatto un patto: “finché non ti laurei, finché non conosci italiano, greco e latino, non dovrai scrivere niente”. Quindi, poi ho fatto quello che andava fatto, e il 5 dicembre del ‘69 mi sono laureato in Glottologia a Roma con una tesi sul lessico agricolo e pastorale sardo.

Com’è nato Padre padrone?

Una volta terminata l’università mi son detto “ma non avevi promesso che avresti scritto un libro per dare voce ai pastori, agli agricoltori?”. Nell’agosto del ‘70, dopo che sono tornato in Sardegna, mi sono fatto tante domande, e finalmente ho iniziato a scrivere. Ad alcune rispondevo in forma di racconto; altre diventavano saggistica; altre ancora poesia. E così ho dovuto chiedermi, ma io cosa sono? Un saggista? Un poeta? Un narratore? A Roma avevo incontrato un bravo redattore di Feltrinelli che mi aveva consigliato di raccontare. Quindi ho cominciato dallo strappo alla scuola ed è partita un’intera narrazione senza sosta, una galoppata fino alla fine del libro. Successivamente ho mandato il dattiloscritto alla Feltrinelli che l’ha accettato. Un’accettazione un po’ rapina però. Rapina fra virgolette, ovviamente.

Mi spieghi meglio…

C’è stato un diverbio. Io avrei voluto lavorare al libro ancora qualche anno. Ma secondo loro funzionava così com’era. Anche i miei amici mi dicevano “va bene così”. Ma non andava bene a me. Avrei voluto andare più in profondità… però la storia alla fine è andata bene lo stesso.

In realtà è andata decisamente bene direi. Un successo editoriale come il suo porta molta notorietà e fama… Sentiva il peso di dover scrivere qualcosa di altrettanto potente?

A me della fama non importa proprio nulla. Tutto quello che dicono mi interessa poco. La gente sproloquia, non parla, non costruisce. Uno sproloquio… non è un colloquio. Per me Padre padrone era consapevolmente una pietra di partenza del mio percorso personale, era solo il primo scalino. Un uomo, finché è sano, è in evoluzione e deve continuare a salire. Io ancora non ho finito, in cima al mio Himalaya non ci sono ancora arrivato.

Perché leggere (o rileggere) “Padre padrone” oggi?

Oggi Padre padrone, è molto più attuale di quando l’ho scritto. E dico purtroppo e forse per fortuna. Purtroppo perché l’uomo si è evoluto in maniera diversa da come avrebbe dovuto. Troppo tecnologico. Troppo artificiale. Tant’è vero che adesso tutti parlano solo di intelligenza artificiale. L’A.I. per me deve essere usata come una grande zappa (questa metafora della zappa si trova nel nuovo libro, Padre padrone mutato ndr.). Come la zappa ha aiutato l’uomo a rivoltare la terra, così l’intelligenza artificiale dovrebbe aiutare l’uomo a zappare la Terra e il Sistema Solare. L’intelligenza artificiale è uno strumento, deve fare quello che l’uomo gli dice di fare. Perché se facesse altro, sarebbe una disgrazia per l’umanità e anche per la Natura. Sarebbe una disgrazia anche per l’intelligenza artificiale stessa. Direi anche per fortuna però, perché sono convinto che Padre padrone dia all’uomo la capacità di riconnettersi con l’intelligenza della Natura allontanandolo dalle troppe interferenze, dal troppo artificio. Quando è uscito il libro eravamo meno consapevoli di questa connessione, anche se era profonda. Io sono stato formato dalla terra, non mi ha formato l’umanità. La scienza si occupa già della natura ma ne fa un uso sbagliato. Perché se la scienza scopre la natura e la usa male, è come inseguire solo l’egoismo umano. L’uomo sta cercando di andare su Marte, però ha dimenticato la mamma, la propria mamma, la Terra. Ha insultato la Terra e sta scappando verso altri pianeti.

L’uomo si deve occupare e rispecchiare solo nella natura che è sempre diversa, muta ogni giorno. Non c’è nient’altro che valga la pena conoscere. Basta la natura, se si vuole fare altro, già si sbaglia.

Quali cose sperava che sarebbero cambiate, grazie al libro?

Non mi ponevo questo problema. Io volevo dire la mia in nome dei pastori e degli agricoltori che non avevano mai parlato. Volevo dar voce a chi non ne aveva mai avuta. Non mi interessava altro. Padre padrone è un romanzo di formazione, ma è anche l’unico romanzo della pastorizia. Non è Gavino Ledda. Gavino Ledda ha avuto la fortuna di sopravvivere a tutti questi tormenti, alle vicissitudini. Ma è un miracolo che ha permesso di raccontare e di fornire una misura di com’era la pastorizia.

A cosa sta lavorando ora? Ho letto che quando compirà novant’anni uscirà un “Padre padrone” nuovo.

Dopo Lingua di falce, in questi quarant’anni, soprattutto da aurumTellus (Scheiwiller, Milano, 1991; Premio Pavese per la poesia nel 2022) e dal film Ybris in poi, ho lavorato a una parola nuova per esprimere la verità della Natura; la parola scritta di oggi non la esprime più. Una parola che non sia solo dell’uomo ma che comprenda la parola degli animali, degli alberi, delle erbe, dell’acqua, del cielo, della terra. Una parola patente e fluente, cioè che fluisce e che si apre. Una parola poietica, (dal greco poièin cioè creare) quindi creativa. Che la parola scritta non andasse più bene me ne sono accorto già durante gli anni universitari.
Mi spiego meglio: le scoperte scientifiche hanno mostrato che la natura è diversa da come avevamo immaginato. Da Galileo in poi c’è stato un bivio: la crescita esponenziale del sapere scientifico ha mostrato che la natura non era più quella che descrivevano scrittori e poeti. La scienza ha avuto il supporto della matematica che però inventaria solo una parte della natura, quella logica. Letteratura, poesia e filosofia hanno continuato ad usare una lingua ormai morta. La parola scritta andava bene fino ad Omero, fino a Dante, fino a Leopardi, ma dopo la teoria della relatività di Einstein è diventato impossibile usarla ancora. La poesia, la narrazione hanno continuato a usare una lingua euclidea mentre la scienza aveva già usato la curva di Gauss, da cui poi è seguita la teoria di Einstein stesso, i poeti invece sono andati dritti ignorando la curva Gaussiana. I poeti non sono riusciti a capire e non lo voglio fare e oggi “poetano” molto peggio di Leopardi, camminano senza occhi e senza bastone.

A me ha salvato aver vissuto la natura che mi ha permesso di arrivare a questa parola nuova. AurumTellus era il primo passo. Adesso dopo ulteriore lavoro, direi almeno trenta passi oltre, sono arrivato al risultato che volevo. Padre padrone lo sto rimodulando con la parola patente, e se la salute me lo permetterà, fra un paio d’anni vedrete il risultato.

Ma se la parola è morta cosa mi dice della poesia?

Il linguaggio poetico è un linguaggio che l’uomo di oggi non ha ancora raggiunto realmente. Lo aveva raggiunto Omero, lo aveva raggiunto Leopardi ma ora non lo abbiamo più. Anche la poesia deve seguire la parola della Natura senza soluzioni di continuità, altrimenti muore. La parola fluente è l’unico modo per permettere alla poesia di poter ancora sussistere. Perché con la parola di oggi, con la lingua di oggi, la poesia è morta. Perché è morta? Perché non inventaria la natura. La natura non può però essere inventariata solo dalla matematica che ne descrive una parte, quella logica. Alla poesia spettano i sentimenti, il cuore, che ovviamente non sono numeri, sono altro.

La parola di aurumTellus era già molto sperimentale, innovativa. Carlo Ossola, filologo e critico letterario raffinatissimo, che le ha consegnato il premio Pavese, ha definito la sua come un’opera cosmogonica.

Eh, aurumTellus è il primo tentativo, però non ero ancora maturo. Facciamo un paragone, quando un fuoco arde, non è mai fermo, finché c’è combustibile lui si muove. Così è questa parola fluens.

Ma qual è il combustibile che tiene in vita la fiamma di questa parola nuova?

L’anima. Però l’anima dell’uomo è inesauribile.

Se il combustibile è l’anima, non è troppo faticoso scrivere? Scrivere non è sempre un po’ consumare sé stessi?

Questo di sicuro. Hai colto proprio nel segno; però cosa dovrei fare? Dovrei forse rinunciare? Prima scrivevo almeno sei ore ogni giorno. Ora la salute mi permette di scrivere meno e ho bisogno di momenti di pausa, ma continuo.

Anche la lingua di “Padre padrone” è morta?

Anche se la lingua in sé stava morendo, quella di Padre padrone non è morta perché, per fortuna, molte volte prevalgono sulla lingua il sentimento, il canto, il pianto, il dolore, l’umanità stessa. Erano sentimenti vissuti, era vita vissuta realmente, c’era una rimembranza ancora molto forte. Io ho vissuto la terra, sono fortunato, tuttavia la terra mi dice: “devi cambiare la parola”.

“Padre padrone” quindi è contemporaneo?

Il contemporaneo è morto. Padre padrone è un libro filosofico: c’è una visione del mondo ed è una visione che va oltre il contemporaneo. La morte è l’unica cosa contemporanea, purtroppo. L’uomo si sta uccidendo.

Quando è uscito “Padre padrone” la scuola era ancora una possibile fonte di riscatto che veniva fornita dallo Stato ai suoi cittadini. Come vede oggi l’attuale crisi della scuola?

Padre padrone per una ventina di anni è stato adattato come lettura scolastica alle medie, ha avuto un ruolo pedagogico importante. Parlando della scuola di oggi invece dico che è una scuola vuota, non si regge in piedi. La colpa non è degli insegnanti, è del sistema politico che ha tagliato troppi fondi per cui la scuola esiste ormai solo su carta. Non è più educativa, non è al passo con i tempi, ma è il governo a non essere al passo con i tempi. Stessa cosa sta succedendo alla sanità e a tutte le altre istituzioni. Quando in una nazione non c’è la sanità, l’istruzione, non c’è più la democrazia. È un capitalismo selvaggio e lo Stato non esiste più. La scienza invece sta progredendo, solo perché è abbinata al business, agli affari, all’economia. La “ricerca per la ricerca” non esiste più e questo è un problema enorme.

Come mai lei aveva scelto proprio Lettere?

Avevo una giustificazione molto profonda, avrei potuto scegliere Fisica ad esempio. Durante l’infanzia e la gioventù intorno a me era tutto nel silenzio, è chiaro che per controbilanciare dovevo scegliere lettere, greco, latino, cioè la lingua, la parola. Ho il rammarico di non essermi potuto laureare in Fisica e ho dovuto scomodare molti amici fisici per insegnarmi questa materia. Perché per essere poeta non basta l’umanesimo, serve anche la scienza. Mi ci vuole l’uno e l’altro.

Lei ha fatto di tutto per poter studiare. Perché, a parte un breve periodo da assistente universitario, non ha fatto l’insegnante?

La scuola è dogmatica, oppressiva non permette libera espressione. Una prigione. Un recinto. Avrei lavorato in una scuola se fosse stata la mia scuola, con il mio metodo. Ho il sogno di trasformare la mia casa di Siligo nella stazione culturale Eurena (Eur da Europa e ena suffisso sardo che significa qui, Europa qui). Sarà anche la scuola che ho in mente aperta, creativa e viva.

Qualche parola però positiva per i giovani? Siamo costantemente immersi nella negatività, avremmo bisogno ogni tanto di credere.

Ai giovani dico leggete Padre padrone. È un libro scritto da uno che poteva morire, nell’analfabetismo. È un miracolo che io sia riuscito a conquistare la parola e a salvare la parola dentro di me. È un libro che fa credere nei miracoli.

Maria Matias Contro