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Le visionarie: intervista a Claudia Durastanti e Veronica Raimo

«Una volta qualcuno aveva chiesto alla scrittrice di fantascienza come le venissero le idee. Questo è ciò che disse: A volte mi sembra che la parte di me che scrive fantascienza viaggi a una velocità diversa dal resto»

Tredici modi di concepire lo spazio-tempo, il geniale racconto di Catherynne M. Valente lo trovate in Le Visionarie un’antologia di racconti di fantascienza, fantasy e femminismo appena pubblicata da Nero, casa editrice romana. Ventinove voci di scrittrici, dalle più affermate come Angela Carter (L’ascia omicida di Fall River) e Ursula K. Le Guin (Sur) a quelle meno note, raccontano di metamorfosi, aborti, utopiche storie d’amore e non solo. L’edizione italiana dell’antologia che i curatori Ann & Jeff VanderMeer definiscono «il contributo a una conversazione in costante divenire sulla potenza della speculative fiction femminista» è stata affidata alle scrittrici e traduttrici Claudia Durastanti e Veronica Raimo alle quali abbiamo deciso di rivolgere qualche domanda. Invece, domenica 25 marzo il libro sarà presentato a Book pride.

Pubblicata nel 2015 Sisters of the Revolution esce in Italia con il titolo Le visionarie: come siete arrivate a questa scelta a mio parere molto riuscita?

Volevamo un titolo che esplicitasse il carattere immaginifico e politico dell’antologia, la traduzione letterale del titolo non ci convinceva. Abbiamo buttato giù vari possibili nomi, in maniera molto libera e azzardata, con un processo di brainstorming che ci allontanasse anche dal titolo originario. Quando ci è venuta in mente la parola “visionarie” ci è sembrata perfetta. Molto spesso è un aggettivo che viene riferito agli uomini, che siano artisti, imprenditori o politici, in senso positivo, mentre applicato alle donne ha un retaggio di misticismo o di allucinazione, un’opacità più che una chiarezza di visione. Ci interessava, invece, restituire alla parola proprio il senso di una proiezione verso il futuro, uno slancio, una capacità intuitiva e creativa insieme, ma anche politica: di uno sguardo che sovvertisse lo status quo, che non considerasse mai la realtà come l’unica possibilità data.

Come avete individuato e poi scelto le traduttrici dei singoli racconti?

Innanzitutto ci piaceva l’idea di avere una pluralità di voci che restituisse anche la pluralità delle autrici coinvolte nell’antologia. Nel selezionare i nomi abbiamo pensato a delle voci di autrici, traduttrici, scrittrici e accademiche che ci piacessero ma che potessero essere anche interessate al progetto, insomma persone che sentivamo vicine a noi per diverse ragioni. Ci ha fatto molto piacere che abbiano risposto tutte con grande entusiasmo. Anche chi non aveva in quel momento troppo tempo a disposizione per imbarcarsi in un nuovo lavoro ci ha tenuto comunque a scegliere almeno un racconto da tradurre per prendere parte all’antologia, il che non era affatto scontato. È stato un lavoro collettivo sotto molti aspetti e anche adesso che stiamo portando un po’ il libro in giro per presentazioni e festival, la partecipazione è condivisa.

Ho trovato assolutamente interessante la vostra affermazione nella postfazione Gli Universi Possibili: «Un certo tipo di realismo – chirurgico, analitico, rigoroso – aveva smesso di incuriosirci e stimolarci». L’interesse per il fantastico e la distopia nasce dall’inadeguatezza e usura del realismo classico o postmoderno?

Può sembrare presuntuoso parlare di usura del realismo, ma di sicuro in questo momento l’interesse per la distopia o per un tipo di realismo “aumentato” rispecchia una certa inadeguatezza del canone realista per raccontare il presente, proprio per come il presente stesso si sta conformando. Non si tratta soltanto di una contaminazione tecnologica che ovviamente prospetta scenari inediti – più o meno angoscianti, ma anche di un rimodellamento della società nelle sue strutture, nei suoi flussi migratori, nella definizione di confine e nel suo superamento, nei nuovi conflitti e nelle contraddizioni che spesso rendono ambigua una distinzione tra utopia e distopia. In questo senso spostare la prospettiva da cui si analizza il presente sembra far emergere una visione più complessa e meno prevedibile.

«La speculative fiction è letteraria perché televisiva, non il contrario». Ricollegandomi alla domanda precedente e alle serie tv da voi citate (Black Mirror, Stranger Things, The OA) anche la serialità televisiva e un certo cinema hanno giocato un ruolo cruciale?

Se consideriamo la popolarità della speculative fiction oggi e il fatto che le  case editrici non specializzate stanno incoraggiando i loro autori a sperimentare con il genere (basta dare un’occhiata alle prossime uscite letterarie in Uk e negli Usa, sono tutte storie che non avrebbero sfigurato nelle Visionarie), dobbiamo ammettere che questa popolarità deve più di qualcosa ai film di Denis Villeneuve o a produzioni televisive new weird stile The OA su Netflix, una piattaforma che ha puntato moltissimo sulla fantascienza. Diventando un linguaggio più comune e massificato, in coincidenza con la frustrazione del realismo, va inevitabilmente a condizionare gli scrittori che non hanno mai avuto un’inclinazione particolare per questa modalità di racconto e non si sono formati così. È anche una questione di velocità degli impulsi: tra Do Androids Dream of Electric Sheep di Philip K. Dick e il primo Blade Runner passano circa quindici anni, idem tra Story of Your Life di Ted Chiang e The Arrival; tra The Handmaid’s Tale e Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood ne passano venti. Invece, pochi anni dopo aver letto Annientamento di Jeff VanderMeer, eccoci già alle prese con il suo adattamento visivo. Che però introduce una controspinta interessante in questo rapporto libro-film sci-fi: invece di potenziare il testo con la sua visionarietà, in qualche modo lo riduce, rinunciando agli elementi costitutivi della storia, a quel qualcosa che non torna che è una premessa fondamentale.

Il testo raccoglie diverse autrici dagli anni sessanta ai giorni nostri. Avete scritto che sono poche le questioni strettamente LGBT, non c’è ancora il femminismo di internet ed è poco intersezionale: evidente è quindi l’evoluzione storica di certi temi e stile annesso. Che cosa vi ha affascinato di più di questa raccolta e cosa, invece, se c’è, non vi ha convinto fino in fondo?

Ad affascinarci sono gli elementi in comune tra queste storie: la capacità di gestire un racconto in  seconda persona per indicare una fuoriuscita da sé, ma anche un rientro violento e perturbante al proprio interno quando necessario, la rinuncia alle pose accellerazioniste per approdare a una distopia ambigua, ma comunque basata sull’empatia, la tendenza al finale aperto: se un sistema non si chiude, non si espone solo alla crisi ma anche alla speranza, e molti racconti hanno questo tipo particolare di luce. I racconti migliori riescono a gestire tutte queste tensioni, non solo con le idee ma anche con lo stile. A volte l’insistenza sul materno o sulla mutilazione del corpo ci è parsa un automatismo, il riflesso di un dibattito distante. In alcuni racconti si intravedono le tematiche ambientaliste tipiche della speculative fiction contemporanea, in particolare il rapporto tra femminismo e le altre specie.

Sarebbe possibile in Italia una operazione editoriale del genere?

Non solo sarebbe possibile, ma in teoria otterremmo un’antologia del genere senza commissionare racconti di fantascienza o speculative fiction: se chiedessimo a una dozzina di scrittrici di mandarci un racconto che indaga le questioni del presente, o addirittura a tema libero, quante scriverebbero una storia che rientra nella costellazione di generi di cui Le visionarie fa un campionario? Un’antologia femminista in Italia, oggi, quanto si allontanerebbe dal canone del realismo? Molto, a nostro avviso, e senza che nessuno glielo abbia chiesto.

di Silvana Farina