Tra il visibile e l’invisibile: intervista al fondatore de La Noce d’Oro
La Noce d’Oro nasce nel 2021, dapprima da un’esperienza di traduzione condivisa. Arrivate poi le prime pubblicazioni, il catalogo ha preso forma con titoli sotto falso nome o pseudonimo, o con opere minori di voci note. Testi, insomma, che sarebbero potuti rimanere dimenticati, alcuni nemmeno pensati per la pubblicazione. Il fondatore ed editore ce ne spiega i motivi, l’iter fino a qui, gli slanci futuri.
La Noce d’Oro. Come avete scelto il vostro nome?
Ci sono tre motivi, o forse quattro, e solo due sono dicibili. La Noce d’Oro è il titolo dell’unico racconto – di cui si ha notizia – lasciato da Cristina Campo. Lei e i sentieri da lei tracciati nel bosco più invisibile della letteratura hanno avuto molta parte nel nostro aver accolto l’idea di esistere.
Il secondo motivo ha a che fare con le fiabe; una noce, soprattutto se dorata, è in queste simbolo di custodia, per ciò che è magico e per tutti quegli incanti che non vanno molto d’accordo con la logica del mondo, con la razionalità che vuol spiegare ogni cosa. Così pensiamo debba essere un libro, un viatico indispensabile per altri mondi, una custodia per cose inaccettabili o incomprensibili, da sfogliare solo nell’estremo e certo bisogno, quando si conosce una nuova lingua senza averla imparata, per dono o per grazia.
Indicibilità, necessità, altrove, già queste sono alcune delle nostre parole guida, come luci sul sentiero, ma ce ne sono anche altre, e molte. Un nome è solo un inizio e spesso è un inizio a occhi chiusi.
“I Talismani”, “Adespota”, “Tebaide”, “Vivarium”, “Nostomània”. Sono i nomi delle vostre collane, testi pubblicati sotto pseudonimo o anonimi, corrispondenze, opere minori di autori noti, anche non letterarie. Perché pubblicare voci rimaste nascoste a lungo?
È quello che ci chiediamo ogni giorno e non abbiamo risposta. È qualcosa che ha a che fare con la purezza e con la sua violazione. Credo fortemente che alcune cose vorrebbero restare nascoste, che non sono nate per gli occhi, per le labbra, per le orecchie. Di conseguenza pubblicare forse non è un atto così lecito, è un atto di gravità, irrimediabile, come rompere il guscio di una noce che mai potrà tornare intera, né più germinare non vista, al buio, verso l’alto. Chi siamo noi per disturbare la sacralità del buio?
Tuttavia, infine, si pubblica così come si rompe una noce: per nutrirsi. Sempre l’uomo ha vissuto in questa contraddizione: cercare la purezza e cercare cibo; avere l’anima e avere fame. Forse un libro può essere la riconciliazione di questa scissione? O almeno l’ombra di quell’unità? Ecco, questo sarebbe un libro prezioso, l’unico motivo per cui pubblicare: riconciliare visibile e invisibile.
Quindi perché? Per fame, per senso di colpa, per incontenibile fede, perché alcune parole fanno sì che il mondo continui a esistere, per celebrare alcune cose e il loro scomparire.
Le copertine dei vostri libri sembrano essere pensate per smaterializzarsi al tocco. La sensazione tattile della carta, le figure che sbiadiscono, il nome dell’autore a volte è appuntato con le sole iniziali, altre sembra essere assorbito dal colore, viola sul viola tra i ricami d’oro. I vostri libri chiamano davvero all’incontro con il lettore?
Non crediamo in alcun modo che un libro debba chiamare. La noce porta-magie della fiaba, non è lei a chiamare, lei esiste, è lì a portata di mano e di speranza, è immediatamente lì se vi si crede. È lei a essere chiamata. Piuttosto dunque vale il contrario: è il lettore a dover chiamare, è di nuovo un atto di fede: chiamare in una stanza vuota, cercare un serpente nella cesta buia.
Ai libri viola – vorremmo – non si arriva perché si è udito, ma proprio perché si è troppo ascoltato e nessuno di quei suoni assomigliava al proprio nome. Forse vi si arriva per esilio, perché si è cercato proprio quel silenzio, quel vuoto della pagina, quel dettaglio che si mostra solo a un altissimo grado di attenzione.
Non avrebbe senso chiamare in un mondo che ha già troppo rumore, meglio uscire nel deserto, aspettare, avere una piccola riserva di acqua azzurra ed essere come un miraggio, che non si sa davvero se sia reale o meno.
Sempre sulla copertina: la vostra collana “Vivarium” raccoglie pagine di diario e scritti privati. Sul fronte, si presentano con un ritaglio di pagina manoscritta dall’autore o dall’autrice; quanto la carta, i caratteri fanno un testo? Pensate ad altri modelli di grafica e di font per i prossimi titoli?
«Un giorno, in un villaggio ai piedi del monte Tai, arrivò un uomo vestito di un abito giallo, legato in vita da una fascia verde. Portava nelle mani piccole pietre di giada. Lo invitammo in casa, dopo alcune ore iniziò a raccontare». Così comincia un racconto cinese. Qualsiasi uomo potrebbe raccontare, ma cosa racconterà un uomo vestito di giallo con una cintura verde? I dettagli, per chi scriveva a mano su materiali fragili e rari, erano necessari quanto il racconto stesso. Ora anche noi non stampiamo molte copie, la prima tiratura ne prevede trecento, di cui solo una parte inizialmente circola, è sfogliata, “va nei villaggi”. Ogni dettaglio dunque deve essere importante. È una questione di responsabilità: bisogna dire il più possibile ma silenziosamente.
La carta, il formato, le proporzioni, il carattere scelto e le sue dimensioni sono parole, frasi, o anche capitoli interi del libro stesso, lo introducono e circondano, come la musica che circonda e protegge un rito. Di alcune cose non avevamo coscienza – come della facile evanescenza delle copertine di “Tebaide” – ma hanno rivelato il loro senso dopo, anche molto dopo. Con l’uso, con la lettura le copertine di quei libri scompaiono, si nascondono, proprio come quei monaci nel deserto egiziano dopo aver pronunciato i loro detti inarrivabili. Non vedi la perfetta identità? Ed è stato qualcosa di involontario.
Chiedi del futuro. Esso è imprevedibile, a meno di costringerlo a ripetersi, a imbalsamarsi. Ed è bello sia così, il futuro è molto più simile al vento che alle stagioni. Tutto potrà cambiare. Abbiamo un libro di Simone Weil, piccolo e nato dall’affluire di coincidenze, che ha dettato totalmente le sue regole per essere se stesso. Il formato è diverso, niente titolo e autore in copertina, solo due iniziali – frammenti del nome –, ha le bandelle pressoché vuote, contrariamente al nostro solito, in una rilegatura spillata: tutto è fuori canone. E per questo fa luce, per questo è bello che esista, ha una sua voce.
Sappiamo che prima o poi vedrà la luce un font a cui stiamo pensando da molto, ispirato alla levigatezza e alla semplicità di alcune formule e preghiere dipinte, dell’arte paleocristiana, bizantina e cinese, ma anche allo stupore di una passeggiata nella natura. Speriamo che le lettere saranno come foglie o petali e il libro come un giardino.
Restando su “Vivarium”, pagine di diario o corrispondenze nate per restare nello spazio fra due persone. Perché pubblicarle?
I numeri uno, due e tre sono molto importanti, sono il fondamento di tutto ciò che con essi si può costruire, come nell’antica cultura indiana il mondo terreno, il cielo e ciò che sta tra i due, unico tramite e mezzo di comunicazione. La poesia è come il numero uno, la singolarità, il cielo, non si deve davvero nulla a nessuno e si può essere senza peso e corpo, puri, un canto per la bellezza di essere canto. Il romanzo, il racconto e il saggio sono come il numero tre, il mondo terreno, richiedono parere, dialogo, discussione, connettono punti e colori come un telaio. Al numero due corrispondono epistolari, diari e anche le fiabe, le leggende, i miti, il teatro, perché sono un tramite, sono comunicazione senza vero possibile linguaggio: si parla in due, o a se stessi, o si racconta a un altro, ma per evocare qualcosa che non c’è, che non può essere presente. È qualcosa che è impossibile trovare altrove.
Le corrispondenze, ad esempio, quando non hanno a che fare con le cose del tempo, sono universi con regole tutte loro, spesso sono illeggibili e intraducibili. Si possono pubblicare, ma con la consapevolezza che il vero centro è altrove, non scritto. Il linguaggio non arriva a tanto. Quindi di nuovo, si pubblica per fame, ma sapendo che non vi può essere sazietà.
Le cose più vere, soprattutto nel mondo occidentale, non si dicono a più di due persone. C’è un infinito linguaggio privato che è sotterraneo e inesauribile; una volta che è costretto a esporsi muta, viene reciso e sagomato, adattato a “quello che si può dire”, a “quello che si può ascoltare”. Per questo gli epistolari, i diari sono esemplari unici. Vorremmo tener traccia e custodire questi mondi che possono far a meno del mondo. Questo è un motivo, ma come sempre ce ne sono altri e molti.
“I Talismani” sono la vostra nuova collana. Sono raccolte poetiche di contemporanei, e le prime due edite sembrano parlare soprattutto di infanzia. È questo il vero talismano che il lettore deve portare con sé nel quotidiano?
È una domanda molto bella e molto attenta. “I Talismani” non conterranno solo raccolte poetiche in realtà, bensì tutti quei testi che hanno in sé un motivo poetico, di creazione, un suono. Crescendo, con l’età adulta ma anche anni prima, si perde quell’estatica fede nella creazione. Ogni volta che un bambino gioca crea un mondo, ne vede uno tutto suo e ogni volta nuovo, è sovrapposto alla realtà o nascosto nella realtà, e vi crede ciecamente, vi dà la massima importanza. Poi si smette di credere, gli occhi si spengono e con essi parte del cuore, e la realtà si fa sempre più unidimensionale, univoca, meno colorata. In verità quei mondi sono molto reali, ma perdiamo del tutto la capacità di intravederli.
Un Talismano, nella sua sovraccoperta ambrata, coi suoi simboli al posto delle “adulte” parole da quarta di copertina, può avere l’effetto opposto, riaprire quell’occhio, rispalancare quel cancello fiorito. Dunque non tanto l’infanzia come età, come stato, ma infanzia come sentire, come natura dell’anima, che è qualcosa del tutto indipendente dall’età. Sono libri in cui si può molto giocare, in cui non c’è molto passato né molto futuro: il loro tempo ha una misura tutta diversa.
Dove trovarvi? In quali librerie, quali fiere?
È facile trovare ogni cosa «quando la si cerca senza avere le mani in tasca», come dice la fiaba. Abbiamo una normale distribuzione, ci sono molte librerie che hanno avuto la meraviglia di ospitare un intero angolo viola, ma in ogni libreria, anche di catena, si può chiedere di noi. Magari non tutto sarà così immediato, ma se un lettore ha fretta forse non è un nostro lettore, sta cercando oro nel posto sbagliato!
Quest’anno abbiamo avuto un anno come di pausa, di riposo, o sarebbe meglio dire “di seme”, non siamo stati né tronco né foglia, non abbiamo accolto il sole e la pioggia delle fiere, ma di nuovo ritorneremo il prossimo anno, non nelle fiere grandi dove c’è troppo rumore, ma in ogni luogo lì dove si può sostare, avere un po’ di meraviglia e tempo, dove non c’è fretta di parlare e dove infine la voce non deve mai essere troppo alta. Speriamo poi col tempo di dare vita ad una nostra idea di fiera itinerante, proprio lì dove non arriva il clamore, dove non ci sono librerie e forse neppure usuali lettori, lentamente e senza scadenze. Non una semplice fiera ma come una carovana di teatranti medievali, coi loro misteri e i loro giullari, o come uno sciame, ricco di miele dorato.
“La Parola” è il numero zero della vostra rivista. Si legge l’indice e si nota che gli scritti tracciano il corso del sole, dall’alba fino al crepuscolo, è chi legge a svelarne poco a poco la simbologia. La metafora è quella del sole che ritorna sempre: per voi questo è la Parola? I testi che accogliete in catalogo sono quelli che, idealmente, tornano alla luce dopo una fase di scomparsa?
Chi dice che sia il sole e non la luna? Non abbiamo dato una spiegazione chiara proprio perché un simbolo non ha una soluzione, è qualcosa di aperto e come tu dici ogni persona, sfogliando, può trovare, scoprire, svelare. Del resto il titolo, non troppo in vista, della rivista è “Efemeride”. Che sia luna o sole però è importante tenere a mente che una luce appare più luminosa quanto più è buio quello che la circonda e che una stessa luce, assieme ad altre luci, non si nota poi tanto e l’occhio non percepisce differenze. Una parola è un po’ questo. Se è al buio diventa Parola, con la P maiuscola. Se sta nel rumore, nel discorso comune, nel mondo, non ha potere, non ha magia né incanto, non può ispirare conversione, né può creare, non è una soglia, oppure lo è ma è una porta chiusa.
Buio, deserto, giardino, sono la stessa cosa, cambiamo le parole in questa intervista ma parliamo sempre dello stesso mysterion. L’arco della giornata nel primo numero vuol dire questo: si parla, si usa la voce, la lingua, con la fiducia del sole aurorale e poi si arriva a un bivio, ci si rende conto che molte cose sono indicibili, allora o si tace o si parla un linguaggio che più si fa vero più diventa incomprensibile e cifrato. Ecco il mysterion, ciò che si deve tacere o anche ciò che si sa ascoltare nel silenzio. Per questo poi si scrive – come dice Zambrano – per il senso di colpa della voce parlata. I nostri libri sono quelli scritti in questa lingua di espiazione, questa lingua segnata di impossibilità. Ecco la mano tesa verso una luce che sta sempre oltre, che non verrà afferrata né mai toccata, del nostro logo.
Le immagini presenti nell'intervista sono prese dall'account Instagram della casa editrice @lanocedoro