L’editoria del mondo nordico: intervista a Pietro Biancardi
Pietro Biancardi, succeduto come editore di Iperborea alla madre – nonché fondatrice della casa – Emilia Lodigiani, è l’ideatore del festival dei Boreali e della collaborazione con “Il Post” che ha prodotto le riviste “The Passenger” e “COSE spiegate bene”.
Cosa significa essere l’editore di Iperborea? Il lavoro in una casa con una specializzazione come la sua è diverso da quello che ha svolto agli inizi presso Il Saggiatore o Feltrinelli?
La prima differenza è che di Iperborea sono anche socio. Inoltre nel Saggiatore avevo un ruolo più specifico, facevo il redattore e il junior editor. Quindi il mio lavoro è molto cambiato: la mia giornata oggi è spezzettata in molte diverse attività, che vanno dal verificare una bozza al controllare una copertina. Il mio lavoro è più ampio e meno specializzato. A parte questo direi che le esperienze sono simili, come case editrici, anche se non sembra, perché anche il Saggiatore aveva una sua specializzazione ed era una casa indipendente. Quindi diciamo che le esperienze sono abbastanza simili.
Iperborea è stata fondata nel 1987, trentasette anni fa. Se volesse raccontare le fasi, i momenti salienti della vostra storia editoriale con pochi libri, diciamo sette, quali sarebbero?
Direi il primo libro pubblicato, La notte di Gerusalemme, del 1988, perché è il primo e va messo. L’anno della lepre di Arto Paasilinna, del ’94, che è stato il nostro primo longseller ed è tuttora il libro più venduto della casa editrice. Poi metterei anche La vera storia del pirata Long John Silver, che è di Björn Larsson ed è il nostro secondo libro più venduto. E con Larsson in particolare è stato un caso abbastanza raro di libro e di autore che ha più successo in Italia che nel suo paese d’origine, quindi il rapporto tra Larsson e Iperborea è stato particolarmente fruttuoso. E quello è stato il primo di tantissimi libri. Salto alle nuove collane, altrimenti ho paura che in sette non ci stiamo. Metterei Sai fischiare, Johanna? di Ulf Stark, il primo della collana dei “Miniborei”, uscito nel 2017: pochi mesi dopo la pubblicazione ha vinto il Premio Andersen, che è il premio più importante per la letteratura per l’infanzia, quindi un buon inizio per la collana. Poi metterei The Passenger: Islanda, anche quello è stato il primo della serie “The Passenger”, che è andata in Top 10 in classifica fin da subito, quindi è stata anche una sorpresa molto positiva. A proposito di libri, il primo “COSE spiegate bene”, il libro-rivista che facciamo con “Il Post”, quello del 2021, che è andato molto bene, anche quello il primo di una serie. Ci ha dato molte soddisfazioni.
Quindi i capostipiti.
Sì, ci metterei i capostipiti, che sono sempre quelli significativi. Metterei anche gli altri primi a questo punto, che sono L’uomo con lo scandaglio di Patrik Svensson, il primo libro a inaugurare la serie dei “Corvi”, uscito a settembre, e poi – questo non è un primo, è un settimo, ma è il primo che abbiamo fatto insieme – L’integrale [n.7], una rivista indipendente nata nel 2020 che dal 2023 pubblichiamo noi sotto il marchio Iperborea. E poi il primo libro del nuovo marchio che abbiamo creato con “Il Post”, “Altre COSE”: il libro si chiama Mostri ed è della scrittrice americana Claire Dederer. E dovremmo esserci, forse ho sforato.
Restiamo sulle collane. Una caratteristica dell’Iperborea degli ultimi anni è proprio avere tante collane che coprono diversi ambiti. Cosa tiene uniti progetti così diversi tra loro?
C’è un percorso che unisce alcune collane. La collana storica [“Gli Iperborei”] doveva portare i libri nordici in Italia, e così è rimasto per molto, molto tempo, fino al 2017, quando abbiamo aggiunto “I Miniborei”, che sono sempre legati alla letteratura nordica, quindi la filiazione è evidente. Il primo cambio di direzione significativo rispetto alla storia della casa editrice è quello di “The Passenger”. Quello era qualcosa di diverso, ma l’idea dietro, lo spunto che la fa nascere è molto simile a quello delle altre collane, cioè che, andando in libreria, ci siamo accorti che qualcosa che volevamo tanto che ci fosse mancava. Un po’ come quando mia madre ha fondato Iperborea: l’ha fondata perché aveva scoperto la letteratura nordica nelle librerie parigine e, quando è tornata in Italia, si è accorta che questi grandi autori non si trovavano in italiano e ha deciso di fondare una casa editrice. Non solo io, ma tutte le persone che lavorano in questa casa e che hanno collaborato negli anni, siamo tutti lettori-viaggiatori, ci piacciono i long-form, le grandi riviste americane, e ci eravamo resi conto che in libreria, se da un lato era pieno di guide turistiche di vario tipo, mancava, relativamente ai luoghi, un libro o una rivista che ti facesse capire cosa sta succedendo oggi in quel paese. Per cui abbiamo iniziato a lavorarci, senza sapere bene che direzione avrebbe preso, e questo ha portato a “The Passenger”. E poi tutte le altre collane che sono seguite sono in qualche modo derivazioni di questo. Luca Sofri, il direttore del “Post”, un giorno mi ha detto: «Perché non facciamo una rivista come “The Passenger” con i contenuti del “Post”?», e da lì è nata “COSE spiegate bene”. “I Corvi” invece si trovano a metà strada: nascono dal lavoro fatto da Iperborea sui libri letterari e la ricerca che fa “The Passenger” per i suoi articoli. Quando lavoriamo ai “The Passenger” ci imbattiamo in moltissimi libri di saggistica, narrativa o in autori che non vengono mai tradotti in italiano, oppure ci accorgiamo che dei capitoli di questi libri, che noi abbiamo estratto e pubblicato dentro “The Passenger”, sono stati montati da altri editori che poi hanno pubblicato il libro intero. Quindi ci siamo resi conto che grazie al lavoro di “The Passenger” ci imbattevamo in tanti libri che non arrivavano in Italia, e che parallelamente nella collana “Gli Iperborei” avevamo già e vendevamo molto bene.
Anche l’apertura per cui poi agli autori nordici si sono aggiunti autori baltici, tedeschi, olandesi, serviva a supplire ad alcune mancanze dell’editoria italiana?
Non è stata in nessuno di questi casi una cosa programmatica, ed era sottintesa fin dall’inizio. Nel senso che mia madre aveva cominciato con gli scandinavi; poi aveva trovato degli autori islandesi e li aveva pubblicati; poi aveva trovato il primo olandese, che era stato Cees Nooteboom, che aveva scoperto trovando un libro su una bancarella, amandolo molto e decidendo di aggiungere anche gli olandesi; lo stesso è successo poi con gli estoni. Quindi diciamo che non è stata una cosa programmatica, ma sempre l’imbattersi in autori o libri molto belli e molto importanti, pensando che, finché non si snatura l’idea iniziale, ci sta fare delle piccole incursioni anche in altri Paesi. Senza contare poi che quella della Germania, come influenza e contiguità con il mondo nordico, ci sembra una letteratura che Iperborea può pubblicare senza far stranire.
Iperborea è legata all’esperienza di sua madre, Emilia Lodigiani, cui lei è succeduto come editore in un contesto culturale ormai molto diverso da quello del 1987. Eppure, Iperborea mantiene ancora oggi la sua identità inconfondibile. Quali sono le differenze fra l’editoria di oggi e quella di allora, e come definirebbe questo passaggio del testimone?
Le differenze sono che ci sono delle cose che erano più difficili allora e delle cose che sono più difficili adesso. Quelle più difficili allora, complicate d sono che è difficile per noi, che oggi siamo immersi dentro Internet, i computer e il mondo digitale, capire come poteva funzionare un mondo totalmente non digitale, il mondo in cui ha cominciato Iperborea, in cui non c’erano i computer, si faceva tutto via carta. Era molto più difficile ottenere informazioni sui libri, ottenere i libri; uno vedeva un libro e doveva farselo spedire dalla Svezia, tempi molto più dilatati, senza appunto contare che, se nessuno pubblicava i nordici, il motivo era anche che c’erano molti meno contatti, molti meno traduttori, quindi mia madre si è dovuta creare una rete di traduttori, di collaboratori, di lettori da zero. Oggi tutto questo è molto più fluido, è più facile. La cosa un po’ più difficile è che oggi vengono pubblicati molti più libri di un tempo, quindi, se un tempo l’editore faceva una proposta editoriale interessante, chiara e ben fatta, c’erano forse più possibilità di emergere. Oggi si pubblica credo tre volte tanto quello che si pubblicava negli anni ’80, a fronte di un numero di lettori simile, quindi oggi questa parte di comunicazione è molto più impegnativa. Noi diamo per scontato oggi che ci siano i festival letterari e le fiere del libro, ma il Salone del Libro è nato nell’88, quindi insieme a Iperborea, e il Festival di Mantova, che è stato il capostipite dei festival letterari in Italia, risale alla fine degli anni ’90 [1997, ndr].
Il passaggio generazionale è stato molto facile e molto fluido, grazie a mia madre che si era data un obiettivo, quando ha cominciato: arrivare a 25 anni di attività. Quando ci è arrivata io nel frattempo ero entrato, e con me erano arrivate altre persone. Lei ci ha molto serenamente lasciato lo spazio per dedicarci a nuovi progetti e li ha anche supportati molto, cosa che non è per niente scontata. In altri casi il passaggio generazionale è molto più difficile, soprattutto per la difficoltà di una persona che ha fondato un progetto – in questo caso una casa editrice, un’azienda – di vedere la trasformazione di questo progetto. Invece mia madre mi ha sempre dato una mano in questa direzione.
A proposito di quanto si pubblica in Italia, e di quanto si legge, che confronto possiamo trarre tra l’editoria dei paesi scandinavi e quella italiana? Pensando specialmente all’Islanda, dove leggono tutti e quasi tutti pubblicano, c’è un rapporto molto forte con il libro, mentre da noi si legge meno, si pubblica probabilmente molto più di quanto si legge, c’è una differenza di consumo. Potremmo apprendere qualcosa dal rapporto degli islandesi con i libri? E quanto è diversa l’editoria dei paesi scandinavi dalla nostra?
Tutti i paesi scandinavi hanno tassi di lettura infinitamente più alti del nostro: da noi neanche la metà della popolazione ha familiarità con il libro, il che vuol dire che più della metà degli italiani non ha letto un libro negli ultimi dodici mesi. Queste percentuali nei paesi nordici sono invece intorno al 10%, quindi parliamo di un altro mondo. Questa cosa ha chiaramente ragioni storiche, nel senso che per vari motivi, che risalgono veramente alla Riforma, l’alfabetizzazione di massa c’è da molto più tempo che da noi. Da noi è un fenomeno relativamente recente. Infatti succede spesso che, quando uno legge un classico dei paesi del nord o libri scritti adesso ma ambientati nel Settecento – penso all’ultimo Paradiso e inferno di Jón Kalman Stefánsson, che è ambientato nell’800 tra pescatori islandesi che fanno una vita di miseria e si citano Milton e tutti i grandi poeti della storia – il rapporto con la cultura che traspare possa sembrare un’invenzione. In realtà no, è una situazione assolutamente plausibile. Dall’altro lato, in tanti paesi nordici c’è molta attenzione alla lettura: tantissimi fondi vengono destinati alle biblioteche. Se ti capita di andare a Oslo, Helsinki, ma anche città più piccole, in pieno centro uno dei palazzi più belli e moderni spesso è la biblioteca. Le biblioteche lì sono questi posti bellissimi, su più piani, luminosi, accoglienti, dove la gente passa il tempo. L’importanza delle biblioteche, al di là della posizione centrale che hanno, nella città e nella vita culturale, è anche sintomo del fatto che sono ben finanziate: i governi investono molto sulla lettura e sulla sua diffusione in tutte le fasce della popolazione. Da noi ti metti le mani nei capelli. Un passo in quella direzione era stato fatto, negli anni del Covid, come aiuto alla filiera editoriale, quando il ministro Franceschini aveva ridato dei fondi alle biblioteche per poter comprare i libri. Una cifra di qualche milione, non cifre radicali che cambiano il panorama, ma questa cosa aveva permesso alle biblioteche di proporre libri nuovi; erano anni che le biblioteche non avevano più soldi e proponevano libri vecchi, o si basavano sulle donazioni. Da quando io sono in editoria le biblioteche non acquistano più libri, il che è un’assurdità, perché significa essere tagliati fuori dal dibattito, dal centro della cultura di un paese. Era una piccola cosa e questo governo ha pensato bene di tagliarla. Questo per dire che siamo molto lontani dal modello scandinavo. Non c’è molta speranza di andare in quella direzione nel breve termine.
Questa parte rimane pessimistica. Una nota felice è invece il fatto che il pubblico di Iperborea è un pubblico in crescita e che, mi sembra, va ringiovanendo. Nella vostra esperienza, cosa apprezza di più il vostro pubblico degli autori scandinavi e delle vostre scelte e a cosa lo si può ricondurre?
La mia impressione è che sia così. Non possiamo permetterci studi statistici, che in editoria si fanno poco, si va più a naso e a sensazione di gente che si vede alle fiere, agli incontri e ai festival, ma la mia sensazione sul pubblico è che sia così. Vedo anche, riferendomi alla parte nordica, che rispetto a vent’anni fa sono molto cresciuti gli iscritti alle facoltà in cui si studiano le lingue nordiche, facoltà in cui abbiamo buoni rapporti e collaborazioni con la maggior parte dei professori, che ci confermano che i numeri sono in crescita ovunque. A me sembra di notare anche, più in generale, al di là del Nord Europa, che ci sia un pubblico molto giovane che viene alle fiere, frequenta i festival. Prendiamo anche gli ultimi grandi fenomeni librari che hanno dato una scossa al mondo dell’editoria: sono tutti fenomeni giovanili, perché c’è stato il manga nel 2020-21, poi c’è tutto il mondo del fantasy, il romance, e poi c’è anche l’altro fenomeno interessante che è quello di TikTok. Negli ultimi due o tre anni alcuni dei libri più venduti in Italia e in tutto il mondo sono fenomeni nati su TiktTok che, come tutti sanno, ha un’età media molto giovane. E a me sembra che questi giovani, quando li si incontra alle fiere, siano molto attenti, molto consapevoli, non solo dei contenuti del libro ma dell’editoria: sanno chi sono i marchi editoriali, si interessano alla carta e molti altri aspetti strettamente editoriali. E questo fa da specchio al pessimismo di prima, mi sembrano elementi che danno speranza.
Rimaniamo sul tema delle fiere e parliamo dei Boreali. Questa è stata la decima edizione e, oltre all’appuntamento milanese, ci sono sempre quelli in altre regioni – l’ultimo è stato a Siracusa a novembre. Come si coordinano fra di loro questi eventi e in che modo rispondono alle differenze tra le regioni che li ospitano?
L’edizione principale è sempre quella di Milano: la nostra sede è a Milano, ci viene più facile anche solo come costi e come logistica. La nostra comunicazione è più efficace a Milano che altrove. L’edizione milanese dura tre giorni – prima anche quattro, poi l’abbiamo un po’ condensata – ed è fatta con una trentina di eventi di vario genere, da quelli letterari alle cose per bambini e i concerti. Quelli che portiamo in giro sono invece festival più piccoli, fatti di solito di sette o otto eventi, e in realtà nascono quasi tutti da inviti o da dialoghi. Per esempio, non conosciamo bene la realtà di Siracusa: lì è stato un gruppo di librerie a dire «Mi piacerebbe ospitare i vostri autori», poi il discorso si è ampliato fino a dire «Ma perché non organizziamo un festival?» e da lì c’è stato un forte appoggio di realtà locali. Per cui quando troviamo un dialogo e un humus fertile ci muoviamo, perché sennò per noi sarebbe troppo difficile andare da un posto all’altro. Tutti i Boreali che abbiamo fatto non a Milano, che ormai sono una quindicina, sono nati così.
Quest’anno i Boreali hanno incluso per la prima volta un dibattito sul tema dei videogiochi in collaborazione con Everyeye.it. Possiamo aspettarci di trovare nuove piattaforme nelle prossime edizioni?
L’idea del festival in realtà è proprio quella di mischiare il più possibile sia discipline sia arti sia anche passioni, realtà diverse, collaborazioni; ci piace quell’idea lì di arrivare dove di solito non si arriva, magari approfondire delle cose che non sono il tuo normale ambito professionale, ti permettono di fare degli esperimenti e di divertirti un po’. Quest’anno ci sono stati i videogiochi: ci piace esplorare gli aspetti più pop della cultura – l’anno scorso l’abbiamo fatto sul successo delle serie tv nordiche, un anno l’abbiamo fatto sul metal, cerchiamo sempre di fare degli approfondimenti in ambiti non propriamente nostri.