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Un altro modo di fare editoria Intervista a Beatrice Benicchi

Beatrice Benicchi, classe 1995, scrittrice eclettica, copyrighter, storyteller, reporter, esordisce nel 2024 per Feltrinelli Gramma con il romanzo Non per cattiveria. Il suo amore per la parola scritta può declinarsi in molte forme, diventando un esempio originale di rapporto alternativo con l’editoria

Mi piacerebbe esplorare con te le tappe del tuo percorso nel mondo della parola scritta, parlando in particolare del tuo approccio all’editoria. Come è iniziato tutto? Quali sono state le esperienze di studio e di lavoro che ti hanno fatto arrivare fin qui?

Ho sempre scritto, fin da bambina. La scrittura e le storie hanno sempre fatto parte del mio quotidiano. Facevo i temi alle mie compagne di classe, scrivevo lettere ai fidanzati delle mie amiche, cercavo di utilizzare le parole per qualsiasi urgenza. Ad un certo punto della mia vita ho dovuto scegliere se farlo diventare un mestiere, e la mia risposta iniziale è stata no.
Ho studiato comunicazione alla IULM di Milano, in un certo senso qualcosa di molto pratico. Volevo fare la copywriter e tenere la scrittura come qualcosa di laterale.
Poi però è successa una cosa: sono partita per la Danimarca, poi per il Montenegro, e ho scritto un reportage che ha letto Antonio Scurati, che gestiva un corso di scrittura creativa all’università. Dopo quel viaggio ho preso coraggio e ho iniziato a pensare che valeva la pena provare davvero a fare la scrittrice, a vivere scrivendo storie. Ho fatto la tesi di laurea con Scurati. Mi sono laureata prima in comunicazione, poi ho proseguito studiando scrittura narrativa e cinematografica.
Ho iniziato a lavorare in casa editrice, dentro al gruppo Giunti, occupandomi di varie cose, dall’ufficio stampa al macro-editing di alcuni testi di varia, facendo anche la ghostwriter.
Ero ancora molto indecisa sulla strada da intraprendere. Cominciavo a soffrire un po’ l’ambito editoriale: io volevo scrivere le mie storie, non volevo occuparmi delle storie degli altri. Quando scoppia il COVID mi licenzio e decido di tornare a fare comunicazione. Ma torna presto la voglia di scrivere seriamente. Stavo lavorando freelance, quindi pian pianino abbasso i progetti, mi metto a fare la cameriera, comincio un lavoro come assistente di un artista, e più o meno in un anno scrivo il romanzo che adesso è stato pubblicato.

Mi racconteresti la storia di questa tua prima pubblicazione?

Avevo dei grandissimi contatti ma molto poco utili, degli ottimi rapporti ma in quel momento totalmente vani. E vivendo a Rimini ero tagliata fuori dall’ambito editoriale. Servivo tagliatelle e pensavo all’archivio dell’artista per il quale lavoravo. Ma avevo un romanzo, e la grande ambizione di pubblicarlo con una buona casa editrice. Feltrinelli è stata una cosa enorme.
Non si deve portare un romanzo appena scritto ad un festival, ma io non lo sapevo. Sono andata a testo [Come si diventa un libro] a Firenze, dove quest’anno ho presentato il libro. Ho chiesto ad uno dei relatori del seminario Come esordire come poter proporre il mio romanzo perché venisse pubblicato. Lui mi ha consigliato un agente dell’agenzia Oblique, la persona che mi ha insegnato cosa significa scrivere un libro. Quello è stato il momento in cui sono ritornata nell’ambito editoriale ma un po’ diversamente, cominciando a capire quale poteva essere un vero approccio professionale alla scrittura.
Poco dopo Feltrinelli lanciava il progetto inprint Gramma. Oblique propone il mio manoscritto e, mentre sono sul Caucaso, mi arriva una sua mail che dice: Chiamami, è urgente. Dalla Georgia sono volata fino a Roma, e ho firmato il contratto con Feltrinelli. Iniziava il mio percorso da scrittrice. Un percorso fatto di grandi occasioni fortuite, ma anche di momenti di consapevolezza: alla fine avevo studiato scrittura, avevo lavorato con il mio agente otto mesi prima di proporre il romanzo, frequentavo festival e conferenze per capire meglio, nonostante non fossi nessuno. Per il resto penso che le coincidenze facciano parte di ogni avventura, e che si debbano sempre ringraziare: ad esempio, dell’agenzia Oblique ho avuto la mail sbagliata, e perciò il mio romanzo non è arrivato nella casella dove tutti gli altri manoscritti si accumulavano in coda, ma è arrivato isolato. Magari, se così non fosse stato, sarebbero passati mesi, mi sarei persa d’animo, chissà.

Leggendo Non per cattiveria mi aveva incuriosito l’uso molto originale delle note a piè di pagina, dove non ci sono rimandi a fonti esterne ma semplicemente delle piccole riflessioni della voce narrante, della protagonista, come in un a parte teatrale.

Io e il mio agente avremmo voluto metterne di più, ma le abbiamo studiate tanto, non volevamo farlo in maniera casuale. Queste note sono un modo per stabilire una vicinanza diversa con il lettore. Non si tratta mai di note scientifiche, non vogliono appuntarti qualcosa perché tu sappia muoverti meglio nel testo. È un’apertura di parentesi. Le ho sempre viste così e sono sempre state lì. Sono gli asterischi che ti segni quando scrivi un diario. E a volte credo ce ne sia bisogno. Io ho scritto un libro dove alla seconda pagina dico “state bene a sentire”. Non lo sto facendo nel secondo romanzo, però scrivendo il primo mi sono immaginata un lettore, forse ero io a rileggermi continuamente, e volevo tenere questo lettore immaginario con me, anche nei ragionamenti che non sono interni alla storia.

Come sta andando il lavoro sul tuo secondo romanzo?

Lo sto scrivendo ma ho ancora paura a proporlo. È stato più facile scrivere il primo, perché non avevo pressioni, mi ero presa del tempo per me. E in quel periodo non sapevo neanche cosa desiderare davvero. Desideravo solo scriverlo. Ho sempre pensato che il mio punto d’arrivo non fosse la pubblicazione, ma mettere il punto finale alla mia storia e sentire che funzionava. Adesso, ovviamente, comincia ad essere un po’ diverso.
Il secondo romanzo subisce un altro tipo di pressione. Però sai anche che hai delle orecchie che ascoltano. Questa è una cosa pazzesca: un libro, anche se lo scrivi solo tu, nasconde dietro una squadra di persone che provano a comprendere il tuo punto di vista per esprimerlo al meglio. Adesso forse ho più paura di deludere la squadra. Prima deludevo al massimo me stessa. Però sono meno sola, è questa la grande differenza.

Qual è il tuo rapporto attuale con il mondo dell’editoria?

Adesso sono dentro questo mondo da autrice, non da addetta ai lavori interni, e ne sono contenta. Continuo a vivere di comunicazione, facendo anche dei reportage. Le dinamiche dell’editoria mi toccano, però nel senso che più preferisco: mi chiedono solo di continuare a divertirmi, e a scrivere bene. Sono fuori circuito, e questa cosa forse è fa un po’ strana, ma è comunque accettata. A volte si pensa che ci sia troppo amichettismo nell’editoria; ma non è l’unico modo attraverso cui si possono scrivere e proporre dei libri, fare delle cose belle e avere un riconoscimento. È certamente più difficile, perché non c’è subito quel passaparola all’interno del mondo degli autori, nessuno conosce il tuo nome e tu non conosci i loro numeri e le loro voci, eppure c’è un modo, ed è anche il mio.

Hai accennato al fatto di scrivere anche reportage, difatti sei una delle redattrici del magazine Inland. Com’è per te pubblicare una rivista indipendente e pubblicare per un editore?

La risposta è semplice: a me piace il mondo. Ero a Linosa fino a ieri, adesso parto per le Tremiti perché sto facendo un progetto sulle isole minori e otto mesi fa ero in Georgia a vivere nelle comunità marginali.
Anche se trovo la letteratura uno spazio meraviglioso in cui stare, anche se a volte, leggendo un libro, penso davvero che non ci sia niente di meglio di un testo ben scritto, allo stesso tempo mi attrae tutto quel mondo che è meno acculturato ma comunque profondo, meno analitico ma stupefacente. Così rinuncio un po’ a stare sulla pagina e nei discorsi letterari, e mi concedo il resto, che significa viaggiare e pubblicare un magazine come lo abbiamo sempre sognato, significa sprecare energie per trovare finanziamenti e significa spesso anche non guadagnarci un bel nulla. O meglio, il guadagno è tutto spostato su un altro piano. È chiaro che è una follia. Lo pensiamo tutti, anche noi che lo facciamo. Però sì che è un’avventura, che poi si traduce in carta, perché siamo ambiziosi e forse un po’ matti. Questo è il mio modo, assolutamente insensato, di stare nell’editoria: lavorare a un progetto a discapito delle vendite e dei circuiti commerciali. In questo caso il prodotto è solo la ciliegina sulla torta, ma ciò che mi interessa è tutto il processo che ci sta dietro: la ricerca, la conoscenza delle persone, il viaggio, e poi la messa a punto di tutta la narrazione interna al magazine, della sua struttura. Si tratta di un grande lavoro che dà dignità a tutto il processo, sebbene non porti chissà dove. Forse l’autopubblicazione fa questo. Non avrei mai autopubblicato il romanzo: quando si tratta di letteratura, le mie intenzioni sono quelle di fare la scrittrice di narrativa attraverso le vie più canoniche e importanti. D’altronde, la facilità con cui si può accedere alla pubblicazione fa sì che le persone pensino che questa possa avere meno valore. Per questo sono sempre stata convinta di volere alle spalle una casa editrice che certificasse il mio romanzo. Piuttosto avrei aspettato cent’anni, piuttosto avrei scritto altri dieci libri. Quando si tratta di Inland, invece, facciamo i conti con il valore del progetto durante tutti i passaggi: dallo studio al coinvolgimento di partner, dalle collaborazioni locali ai rapporti personali che stabiliamo durante i nostri soggiorni. In questo progetto, solo alla fine arrivano le pagine. E allora dici chi se ne frega, nessuno deve dirmi se questa cosa è bella oppure no. Questa cosa è degna e dà dignità alle persone, questo basta.

Che consigli daresti, in base alla tua esperienza, a coloro che vorrebbero approcciarsi al mondo editoriale come hai fatto tu, in maniera non canonica, cercando di rimanere sé stessi e vivendo al contempo delle esperienze esterne all’editoria?

Credo che la forza stia nella consapevolezza della propria misura. Non c’è un unico percorso, nemmeno due, nemmeno tre. E ci sono davvero tante misure diverse attraverso le quali possiamo riuscire a stare dentro alla letteratura. Penso che sapere come funziona il mondo dell’editoria aiuti a comprendere delle dinamiche e ad accettare il fatto che alla fine è un’industria. In base a questo, puoi capire quanto può essere o meno rilevante per te la vendita e il commerciale. Devi trovare il tuo posto, il modo in cui stare lì dentro, e farlo significa anche capire che non lo vuoi fare.
La letteratura ci deve appartenere. Che tu voglia fare l’editor, il caporedattore, l’ufficio stampa, i comunicati, gestire i social oppure l’autrice. Qualsiasi cosa appartenga al mondo letterario prevede la passione per la letteratura, ma questo non comporta per forza il dover stare in mezzo al circuito. Sono due cose diverse. Il mio consiglio è: se senti che questa potrebbe essere la tua strada trova dei pertugi, per capire qual è la misura entro cui ci vuoi stare dentro. E poi leggi. Leggi tantissimo e sii consapevole di qual è la tua fonte d’ispirazione principale.

Da cosa trai maggiormente ispirazione per la tua scrittura?

Per me la fonte principale è il mondo esterno, ma riconosco che per qualcuno possa essere il proprio mondo interiore, e che per qualcun altro le fonti siano semplicemente i libri. Io traggo ispirazione da un pescatore che imita con la voce il verso di un uccello. E lì c’è tutto il mondo che voglio tradurre in una pagina. Dov’è che davvero ti si aprono le spalle e il mondo ti entra dentro? A qualcuno succede di più leggendo, a qualcuno ascoltando, a qualcuno riflettendo. Prima vivi, poi scrivi, dicevano. E per me questo consiglio è stato d’aiuto, anche se, senza leggere si può scrivere, ma difficilmente si scrive meglio. Io mi accorgo che quando leggo tanta buona letteratura il mio orecchio si abitua a non innamorarsi delle mie parole scarse. Se invece sono presa da altre cose, se leggo poco, diventa molto più difficile. Credo che sia quasi impossibile fare la scrittrice senza leggere. Ma si può fare gli scrittori senza lavorare nei libri.

Hai sperimentato, e sperimenti tutt’ora, declinazioni diverse della scrittura: non solo normale prosa ma anche racconti, poesia (sei attiva nel poetry slam). E poi reportage, storytelling… C’è un nesso in tutto questo?

Credo che ogni storia abbia una modalità, quasi connaturale, attraverso cui riesce ad arrivare meglio alle persone. Posso utilizzare la prosa, la poesia scritta o fare poesia performativa, posso fare addirittura un reportage narrativo se devo attenermi completamente alla realtà. Ma ci devo sempre pensare. Devo sempre capire in che rapporto stanno le storie e le parole, le storie e il ritmo, le storie e la loro fisicità. A volte non riesco a mettere un pensiero in versi, ma diventa subito un racconto, a volte invece è tutto il contrario. Bisognerebbe ascoltare le cose che si hanno da dire e capire, di nuovo, qual è la loro misura. Il filo rosso tra questi modi di esprimersi è che scrivere non richiede nient’altro che te stesso: tu hai la possibilità costante, in ogni momento e ovunque nel mondo, di darti cinque minuti per capire quello che sta succedendo e per dargli una forma, un senso. È una cosa potentissima. Ho letto da qualche parte che forse la cosa più faticosa per uno scrittore è proprio scrivere. Però è necessaria per muoversi, credo sia come un movimento, è il mio movimento nel mondo, il mio danzare. Io non so ballare, quando ballo sono davvero una visione orrenda, però per me è quello. Il modo in cui il mondo danza, o io danzo nel mondo.

Qual è il tuo rapporto con il viaggio? Al centro di tutti i tuoi viaggi, da quelli con Inland alle tappe del tour promozionale del tuo libro, c’è l’incontro con le persone.

Il viaggio è il mio modo per dimenticarmi di me stessa, ma allo stesso tempo di ricordarmi quanto sono connessa alle cose. La scrittura a volte mi disconnette, il viaggio invece mi lega agli altri. Tutti i viaggi che faccio prevedono la relazione. Inland nasce con l’intento di raccontare luoghi attraverso le persone che li abitano. Sono tornata alle due di notte dall’ultimo viaggio di otto giorni in cui abbiamo parlato costantemente, tutto il giorno con tutti gli abitanti di questo posto. Giorno dopo giorno si stabilisce un’intesa, un ascolto profondo che ti consente di capire molte cose dell’altro, e anche alcune cose di te.
Con Inland andiamo sempre in posti abbastanza isolati, in qualche modo estremi, con delle comunità particolari, spesso in disgregazione o in estinzione. Le tappe della promozione del mio libro in Italia non erano luoghi estremi, però erano quasi tutte aree interne: abbiamo scelto di girare per le librerie indipendenti in piccoli centri abitati, evitando grandi città come Milano, Torino, Bologna. Tutto questo era sempre orientato allo scambio, all’incontro. Il libro diventa un pretesto per incontrare il libraio e dei lettori, che poi magari non sono lettori ma sono frequentatori della libreria, magari sono persone che non hanno niente da fare alle sei e che vengono lì per passare del tempo. Anche tu diventi un pretesto per parlare di altro, per raccogliere storie su com’è fare i librai, com’è farlo in un piccolo paese. Questi posti sono davvero dei rifugi, sono molto più vivi di quanto pensiamo.
Quando si viaggia per Inand si organizza tutto, prima di partire facciamo alcune ricerche che durano un paio di mesi. Da casa stabiliamo sempre una serie di contatti che ci potranno aiutare sul campo, perché quando arriviamo in due o tre, con la macchina fotografica e tutta l’attrezzatura, sembriamo davvero una troupe, ed è normale apparire come qualcosa di spaventoso, è normale essere trattati con sospetto. Tutto il lavoro di preparazione spesso è semplicemente orientato ad avere già degli amici, delle persone che sanno ciò che andremo a fare. Non siamo giornalisti. Il nostro approccio è spesso molto amichevole e goliardico: tu stai bevendo e quindi bevo anch’io, se stai mangiando mangio anch’io. Sto facendo le cose come le fai tu, ti seguo nel tuo quotidiano: e allora sì, funziona. È questo quello che ho provato a fare anche con librai, presentatori, lettori. Il tour è stato fatto in van e ha seguito davvero tante tappe. È stato bello. Mi sono alzata una mattina, ero nelle Marche, vicino ai Monti Sibillini e le persone sapevano che noi eravamo in van ma non sapevamo neanche dove, però devono averlo visto parcheggiato e ci hanno lasciato due brioches sul parabrezza. Questa è la modalità attraverso cui veramente capisci e ti immergi. E tutto ti riempie, a volte ti riempie anche troppo. Ma è il modo in generale in cui conduco la vita, un modo come ce ne sono altri, dicevo, ma questo, anche se non sempre funziona, è il mio.

 Ginevra Gagliardi

Foto di Omar Iannuzzi