Il ritratto dello studioso: eversivo e contrario
La passione ribelle
Collana: i Robinson / Letture
Laterza, 2015
p.149, 14 €
«Chi studia è sempre un ribelle. Uno che si mette da un’altra parte rispetto al mondo e, a suo modo, ne contrasta la corsa. Chi studia si ferma e sta: così, si rende eversivo e contrario. Forse, dietro, c’è sempre una scontentezza: di sé, o del mondo. Ma non è mai una fuga. È solo una ribellione silenziosa e, oggi più che mai, invisibile. A tutti i ribelli invisibili è dedicato questo libro.»
Dopo La scuola raccontata al mio cane (Guanda, 2008) e Togliamo il disturbo: saggio sulla libertà di non studiare (Guanda, 2011), Paola Mastrocola torna a cimentarsi nella trattazione di un tema a lei molto caro e congeniale: quello dello studio, alias La passione ribelle. Mettendo a frutto la sua esperienza didattica pluriennale e una personalissima analisi antropologica e sociologica della realtà, l’autrice ci fornisce uno scorcio, spesso graffiante e polemico, dell’attuale mondo dell’istruzione e della cultura.
Il saggio, velato dalla nostalgia ma forte del suo disincanto, prende atto della marginalizzazione dello studio nelle scuole, nelle famiglie, nel nostro tempo libero.
Le responsabilità di questo fenomeno sono molteplici e indagate con oggettività: in primis viene chiamata in causa la scuola, sempre più indulgente verso la svogliatezza e sempre più incline alla semplificazione dei programmi e dei metodi di studio. Nei licei – spiega la Mastrocola – ma anche nelle università, viene sacrificata l’eccellenza in nome di una ben poco aurea mediocritas, quella impegnata in mille attività extracurricolari ma incapace di una concentrazione costante nello studio giornaliero, quella tesa alla socializzazione ma inadatta alla compagnia di libri e manuali.
Tuttavia occorre guardare al di là delle mura scolastiche per cogliere appieno le radici e le cause profonde della scomparsa dello studio: la società moderna ci inculca la mitizzazione della tecnologia e del benessere, la crisi economica ci rende pragmatici, e nonostante tutto desideriamo cose di cui non abbiamo effettivamente bisogno. Perché recarsi in biblioteca se esiste internet? Perché studiare, se il lavoro è poco e le lauree non garantiscono posti fissi? Perché fare ricerca, qual’è il suo scopo pratico?
La famiglia è l’organo più colpito da questa malattia sociale: i genitori considerano inutile e dispendioso investire nell’istruzione, preferiscono che i figli facciano sport, socializzino e cerchino presto un lavoro. Lo studio è un investimento che non ripaga immediatamente, non comporta necessariamente aumenti di stipendio, ma è ciò che ci rende veramente vivi. È qui che giunge la riflessione della Mastrocola: dopo capitoli di riflessioni amare sul reale stato delle cose, finalmente si lascia andare alla speranza, si abbandona all’immaginazione di un mondo migliore, anche se dichiara di non saper «inventare utopie».
Citando l’Elogio dell’ozio di Russell e l’utopia di Keynes, l’autrice prefigura un mondo in cui si lavora meno, o comunque solo per il proprio sostentamento, e si vive realmente realizzandosi nel proprio tempo libero, in un otium autentico, privo di scopi estrinseci, teso soltanto alla nostra perfettibilità di esseri umani.
In un mondo in cui si è imposta l’interconnessione continua, un tempo prepotentemente condiviso, la Mastrocola crede ancora nella solitudine più feconda, quella di chi vive la conoscenza come un obbiettivo, un oggetto del desiderio.
Come scrive Thoreau infatti «lo studente realmente studioso è un solitario» e questo desiderio di conoscere, coltivato nella solitudine della propria camera o di una biblioteca, può forse realmente salvare l’uomo moderno da se stesso, perché ci fornisce «un sapere legato alla vita, capace di aprire porte, finestre, mondi» (Massimo Recalcati, L’ora di lezione, Einaudi, 2014).