Recensioni

“Forse la giovinezza è solo questo / perenne amare i sensi e non pentirsi”

di Sandra Bardotti

“Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?” si chiede l’allievo di Giotto nel Decameron, con stupore innamorato, osservando la propria opera d’arte e la realtà da cui essa ha preso forma. Parole che dovevano essere pronunciate da Sandro Penna, al quale Pasolini aveva deciso di affidare la parte dell’allievo nel suo film. Penna all’ultimo si rifiutò, e così fu Pasolini stesso a personificare il ruolo. Il fatto che Pasolini avesse pensato a Penna per una parte in cui c’era bisogno di pronunciare solo queste poche parole ma significative, è importante per capire l’idea che Pasolini aveva di Penna, della sua figura e della sua poesia.

La grandezza di Penna si avverte anche solo nella difficoltà a trovare misure adatte per definirlo. Alla base del problema sta il fatto che la poesia di Penna nasce dalle illuminazioni del desiderio. Tutto, nella vita di questo amante del mondo, felice di girare con il suo “bianco taccuino sotto il sole”[1], oscilla tra l’espressione panica e luminosa dell’io e una regressione nell’infelicità. Quasi come trovarsi d’improvviso a metà Novecento tra Pascoli e D’Annunzio. La libido si presenta in maniera discontinua: ai momenti in cui essa si manifesta e agisce come una droga, facendo sfavillare la realtà e la presenza del poeta in essa, si alternano le cadute, i risvegli, segni del nume che ci rinnega e ci esclude dalla visione numinosa del mondo, l’esilio. Proprio dal riconoscimento dell’estraneità e della fuggevolezza nasce l’amore di Penna per le cose del mondo e per la vita. E se tutto, nella sua poesia fatta di presente già passato e di passato fulmineo come il presente[2], sembra essere sempre nuovo, emozione mai vissuta, è perché l’appagamento del poeta non nasce dall’immedesimazione con la natura e le cose, ma dal riconoscimento dell’esclusione. Dunque esso può ricostruirsi ogni volta come fosse nuovo, grazie alle illuminazioni concesse dalla libido. Il distacco dalla realtà diventa essenziale per far sì che la visione delle cose risulti sempre nuova, inesplorata. Infatti, la realtà, dopo che il soggetto l’ha trasposta nel proprio mondo, nel proprio spazio vitale, deve essere rifiutata, in modo che la sola verità superstite, quella che conta, sia prodotto del soggetto desiderante. Solo così è possibile garantire verità a una poesia epigrammatica, di piccole cose quotidiane, che non ha pretese se non quella di esistere nel mondo che istantaneamente l’ha creata. Ma il soggetto non può esistere al di fuori del mondo. Così Penna deciderà, per scelta consapevole, di vivere al di qua del mondo e della storia, “al di qua, mai al di là, di ogni inquietudine morale e di ogni complessità romantica e sentimentale riflessione” (Anceschi)[3]. L’indifferenza di Penna nei confronti delle vicende storiche sembra assoluta. Il contrasto tra intensità del desiderio e inappagamento si risolve così, nella scelta di una vita sul marciapiede, tutta incentrata sul proprio io amante e amoroso. L’eros è la molla di ogni impulso vitale, forza a cui tutta la vita di Penna ha deciso di votarsi, anche solo per vivere dei piccoli attimi di felicità narcotica concessi dal Dio. Non c’è altra legge che quella dettata dagli alti e bassi dell’energia erotica vitale. Una sensualità evidente attraversa tutta la sua poesia, una sensualità che non può appartenere all’umano per il suo carattere intermittente e misterioso. È questa onnipotenza del desiderio che affascinò profondamente Pasolini, e che lo portò ad essere sempre attento lettore e critico di Penna. Se la vita di Penna, il suo carattere così evanescente, insicuro, a tratti scontroso e indifferente, non potevano che suscitare il suo biasimo, la poesia di questo piccolo poeta epigrammista di sensazioni lo attirava in una rete di incanto. Pasolini non avrebbe mai potuto scegliere di vivere al di qua della storia. È una questione di carattere e di scelta ideologica. L’obiettivo della poesia pasoliniana era completamente estraneo a Penna: coniugare la propria biografia, la propria esperienza sofferta di uomo e di diverso, con la storia e la cronaca. È proprio da questa osmosi che Penna era fuggito, come spaventato da quelle che sarebbero potute essere le conseguenze della realtà che veniva in contatto con il suo mondo infantile. Come se non fosse stato in grado di sopportarle, come se avesse avuto paura che le illuminazioni sarebbero venute meno e lo avrebbero recluso nella banale quotidianità. In Penna non si manifesta l’urgenza del dire, come invece in Pasolini. E forse, proprio per questo, la poesia di Penna non poteva che realizzarsi entro forme metriche brevi e in sé perfette, lunghe quanto la durata dell’attimo di magia concesso dal Dio; e, ancora per questo, d’altro canto, la poesia di Pasolini non poteva che rivelarsi talvolta mancante alla compiutezza dell’espressione. Ma il fascino dell’eros nella poesia di Penna era forte, tanto che non si attardò a definirlo “il più grande, e il più lieto, poeta italiano vivente”[4].

Lo stato di Penna è quello di uno che si senta punito e torturato ingiustamente: si torce sotto il dolore della punizione e si sente innocente. Se appena gli si presenta il sospetto della colpevolezza, lo rimuove. Intendiamo, appunto, la consapevolezza di non essere nella coscienza e nella storia: di aver ridotto il mondo a teatro delle vicende e dei trascorsi dell’io.[5]

È soprattutto nell’ Eros indisciplinato e innocente che Pasolini sente una vicinanza con la poesia di Penna. L’omosessualità, sicuramente, poneva Pasolini così vicino a Penna. Eppure Garboli riconosce la profonda differenza dell’omosessualità di Penna da quella di Pasolini: “L’eros di Pasolini è virile, marziale, da flagellazione caravaggesca; quello di Penna è femminile, androgino, da discreto mistero umbro”[6]. Ma uno stesso amore per i ragazzi delle borgate romane accomuna i due poeti. E come ci si sente vicini ai compagni di pena, così Pasolini non può che guardare a Penna come un fratello, che condivide con lui il peso di una colpa. La poesia di Penna è colma di una fisicità traboccante. Il corpo è come se si sostituisse all’anima, determinando la ragione di essere ed esistere di una vita intera. Il mondo sociale è avvertibile tramite l’esperienza del corpo; il mondo storico, invece, dovrebbe essere avvertibile tramite la memoria morale e ideologica. È come se Penna, dunque, avesse rinunciato a quest’ultima. Per questo la sua poesia si presenta di per sé, in virtù di questa semplice condizione, mostruosa. Penna non compie nessun scandalo, nessun gesto moralmente inaccettabile, perché la sua visione della realtà, spoglia dei codici che regolano la normale comprensione, tutta orientata dalla percezione corporea, basta da sola a creare un alone di oscurità intorno alla sua poesia; alone che rende ancora oggi un poeta all’apparenza semplice e cantabile come Penna un “monstrum”[7], un mistero insondabile. È la fedeltà che Penna dimostra nei confronti del Dio-amore che attrasse tanto Pasolini, l’obbedienza alle ragioni del corpo e dell’Eros pronta a spingersi fino al martirio. In questa posizione Pasolini riusciva a intravedere l’unica forma perfetta di santità possibile.

In cosa consiste la sua santità? Nel silenzio con cui ha rinunciato alla vita e al suo godimento così come è inteso nella nostra parte di storia in cui siamo apparsi su questa terra. Ripeto, ha cercato il suo godimento altrove, in cose considerate da tutti futili, remote, incomprensibili, infantili e sconvenienti. Anche Penna è stato, ripeto, un po’ predone di quella realtà che forse dovrebbe essere unicamente contemplata. Ma è proprio da questi suoi momenti di peccato – in cui è venuto meno alla regola della rinuncia e della umile, silenziosa, monastica protesta contro il mondo, così sublime e così in accogliente – che ha trovato le ispirazioni per la sua poesia. Essa consiste nell’osservazione lieta e priva di ogni speranza delle cose (per Penna pochissime, anzi forse una sola) che si possono avere nel mondo per sopravviverci: ma questa osservazione è compiuta nel silenzio di quel luogo dove non si vive più ma, appunto, si contempla soltanto. Questa sua esclusione di se stesso da un mondo che del resto lo escludeva, è stata una lunga ascesi, fatta di notti e di giorni senza regola, in cui si ride e si piange, come ingenui personaggi di opere romantiche senza principio né fine, con le loro croci e le loro delizie: una lunga ascesi in cui, anziché pregare, egli ha cantato le forme del mondo lontano.[8]

Dunque l’ammirazione di Pasolini sembra passare anche attraverso una lettura para-cristiana, che invece è del tutto estranea al profondo realismo di cui è intrisa la poesia di Penna. Concordiamo con il critico Alfonso Berardinelli nel pensare che la diversità assoluta di Penna inquietasse Pasolini, e che egli, come per scongiurare la paura di qualcosa che non si fa mai conoscere completamente e a fondo, cercasse di ricondurre la sua poesia su toni eufemistici. La figura che ne è venuta fuori è quella di un Penna problematico, che sublima e nasconde. Ma in realtà Penna non sublima o nasconde: semplicemente, ignora. La sua è un’indifferenza assoluta nei confronti della morale, il suo linguaggio è solo quello della nuda vita, fuori dalla storia, presenza reale e non paradosso ideologico. Le sole leggi da cui si lascia governare sono quelle naturali, perché inspiegabili e non umane.

Penna e Pasolini furono amici a Roma. Si frequentavano vicendevolmente, anche grazie alle amicizie comuni, in primis quella con Elsa Morante. Dunque ebbero modo di apprezzarsi direttamente, di scambiarsi poesie e pensieri. Eppure l’insofferenza nella vita di Penna negli ultimi anni era giunta ad un punto tale che l’atteggiamento di Pasolini nei suoi confronti si fece addirittura bonariamente ironico. Non mancò mai il rispetto e l’ammirazione nei confronti del grande poeta, ma Pasolini imparò a non prenderlo più così sul serio, almeno nelle sue scelte di vita ed editoriali. Ne abbiamo testimonianza in una lettera a Nico Naldini del marzo 1952, dove consiglia al cugino di non inviare poesie a Penna: “È perfettamente inutile mandare poesie a Penna: se ne frega altamente di tutto. Comunque ha sempre una vaga idea di scrivere sul tuo friulano (nota che sono alcuni anni che non scrive una riga: quindi c’è poco da sperare)”[9].

Nonostante ciò, Pasolini fu un grande ammiratore e sostenitore di Penna. Quel Penna, poeta vagabondo, era destinato a diventare, dopo la prima raccolta di poesie, un piccolo maestro per le nuove generazioni, soprattutto per quelle della scuola romana, come Pasolini e Dario Bellezza.

Il secondo libro di versi di Penna uscì nel 1950 nelle edizioni milanesi della Meridiana col titolo di Appunti. Pasolini gli dedica un articolo su ‹‹Il Popolo di Roma››, il 28 settembre dello stesso anno. E già in questo si può vedere la sincera ammirazione per la poesia pura di Penna, per il mistero che essa racchiude e svela a tratti, a illuminazioni improvvise. Significativamente Pasolini accosta la figura di Penna a quella di un altro grande maestro:

Naturalmente, la tecnica di Penna è inimitabile, come, del resto, è senza veri precedenti: se gli volessimo trovare una figura cui assimilarlo, crediamo che l’unico nome da fare sarebbe quello di Rimbaud, il Rimbaud ragazzo, con tutto il suo dérèglement ancora potenziale, e magari con una vena melodica ancora più fluida e tersa. Come Rimbaud, Penna è, nelle lettere italiane, il ribelle infantile e assolto. Naturalmente anch’egli giunge spesso, nel suo quotidiano delirio, a un’illogica saggezza, a un’acerba e ingenua maturità.[10]

Nel 1955 vi fu la pubblicazione di Una strana gioia di vivere, che costituisce un punto fermo nella storia di Sandro Penna, accolta molto bene dalla critica tanto da meritare l’assegnazione di un premio letterario, il fiorentino “Le Grazie”, e Pier Paolo Pasolini, lettore attento del volume, con un articolo su ‹‹Paragone››, a. VII, n. 76, aprile 1956, riconobbe la modernità della poeta, analizzando e controbattendo le critiche che finora si erano sviluppate nel panorama letterario. Quella di Pasolini è una delle prime letture originali e intelligenti fatte della poesia di Penna. Pasolini è uno dei critici più profondi e analitici della sua poesia. E il mondo di sensazioni che Penna riusciva miracolosamente a creare con la forza dell’Eros non poteva non entrare anche nel mondo poetico e narrativo di Pasolini, anche in Petrolio.

Nel 1956 esce la raccolta Poesie, che vinse il premio Viareggio insieme con Le ceneri di Gramsci dello stesso Pasolini.

“Io ho fatto un culto di Penna: e, come tutti i culti, esso mi dà il rimorso di non essere così forte e fedele da praticarlo degnamente”[11] scriverà Pasolini nel ‹‹Segnalibro›› all’edizione di Tutte le poesie di Penna, uscita nel 1970 per Garzanti. È il segno di una stima che va ben oltre la parola poetica, e anche sintomo di un’identificazione personale che si è consumata tra due poeti accomunati dall’aver scelto Roma come patria di elezione e dall’averla vissuta negli stessi anni, portandosi dietro lo scandalo dell’omosessualità.

L’ultimo grande elogio per Penna è la recensione che Pasolini dedica alla raccolta Un po’ di febbre, sul ‹‹Tempo››, a. XXXV, n. 23, 10 giugno 1973. Nell’epoca fascista niente è stato più antifascista della visione che Penna dette dell’Italia di quel periodo. Egli ha preferito rimanere al di qua della storia, descrivendo la bellezza e la bontà del nostro paese senza immettervi tracce della ferocia e dell’ottusità fascista.

Che paese meraviglioso era l’Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo!

[…]

Le città finivano con grandi viali, circondati da case, villette o palazzoni popolari dai “cari terribili colori” nella campagna folta: subito dopo i capolinea dei tram o degli autobus cominciavano le distese di grano, i canali con le file dei pioppi o dei sambuchi, o le inutili, meravigliose macchie di gaggie e more. I paesi avevano ancora la loro forma intatta, o sui pianori verdi, o sui cocuzzoli delle antiche colline, o di qua e di là dei piccoli fiumi. La gente indossava vestiti rozzi e poveri (non importava che i calzoni fossero rattoppati, bastava che fossero puliti e stirati); i ragazzi erano tenuti in disparte dagli adulti, che provavano davanti a loro quasi un senso di vergogna per la loro svergognata virilità nascente, benché così pieni di pudore e di dignità, con quei casti calzoni dalle saccocce profonde; e i ragazzi, obbedendo alla tacita regola che li voleva ignorati, tacevano in disparte, ma nel loro silenzio c’era una intensità e una umile volontà di vita (altro non volevano che prendere il posto dei loro padri, con pazienza), un tale splendore di occhi, una tale purezza in tutto il loro essere, una tale grazia nella loro sensualità, che finivano col costituire un mondo dentro il mondo, per chi sapesse vederlo. È vero che le donne erano ingiustamente tenute in disparte dalla vita, e non solo da giovinette. Ma erano tenute in disparte, ingiustamente, anche loro, come i ragazzi e i poveri. Era la loro grazia e la loro umile volontà di attenersi a un ideale antico e giusto, che le faceva rientrare nel mondo, da protagoniste. Perché cosa aspettavano, quei ragazzi un po’ rozzi, ma retti e gentili, se non il momento di amare una donna? […]

Per quelle città dalla forma intatta e dai confini precisi con la campagna, vagavano in gruppi, a piedi, oppure in tram: non li aspettava niente, ed essi erano disponibili, e resi da questo puri. La naturale sensualità, che restava miracolosamente sana malgrado la repressione, faceva sì che essi fossero semplicemente pronti a ogni avventura, senza perdere neanche un poco della loro rettitudine e della loro innocenza. Anche i ladri e i delinquenti avevano una qualità meravigliosa: non erano mai volgari.[12]

E questa realtà descritta da Penna è la stessa che è stata amata e riprodotta da Pasolini nei suoi primi due romanzi romani, quando ancora l’illusione della purezza del mondo delle borgate romane sopravviveva.

Ora che tutto è laido e pervaso da un mostruoso senso di colpa – e i ragazzi brutti, pallidi, nevrotici, hanno rotto l’isolamento cui li condannava la gelosia dei padri, irrompendo stupidi, presuntuosi e ghignanti nel mondo di cui si sono impadroniti, e costringendo gli adulti al silenzio o all’adulazione – è nato uno scandaloso rimpianto; quello per l’Italia fascista o distrutta dalla guerra.

[…]

Nel libro di Penna quel mondo appare ancora in tutta la sua stabilità ed eternità, quando era “il” mondo, e nulla avrebbe mai fatto sospettare che sarebbe cambiato.

[…]

Tanto che è difficile parlare di Un po’ di febbre come di un libro: esso è un brano di tempo ritrovato. È qualcosa di materiale. Un delicatissimo materiale fatto di luoghi cittadini con asfalto e erba, intonaci di case povere, interni coi modesti mobili, corpi di ragazzi coi loro casti vestiti, occhi ardenti di purezza e di innocente complicità.

[…]

Un dolore sconfinato vi è a malapena contenuto come presentimento di perdere quella gioia. Questa illimitatezza sentimentale, fa intravedere in questo poeta, che (forse con Bertolucci) è realmente il più grande poeta italiano vivente – anche quel poeta che egli non è stato: un poeta al di fuori dei limiti che egli si è imposti con commovente e purissimo rigore.[13]

Questo è l’ultimo pensiero di Pasolini su Penna. E in Petrolio, là dove vi sono quelle grandi descrizioni paesistiche, lungo le prefazioni, si sente l’eco di quella città e di quegli esseri viventi descritti mirabilmente da Penna. Non ci si può sbagliare. È la stessa realtà ad essere invocata, è lo stesso sole che getta una luce avvolgente su quei palazzi grigi e su quelle esistenze povere. È la bellezza che non può più resistere alla corruzione. Ma Pasolini non può reagire come Penna davanti a questa immanente distruzione. Pasolini è per vocazione tutto immerso nella storia e non può ignorare il degrado in cui la stessa istituzione culturale lascia sprofondare questa bella Italia del periodo fascista e subito seguente. La mercificazione, l’omologazione, la distruzione di una purezza originaria delle coscienze non può lasciarlo indifferente, né limitarlo a descrivere con nostalgia. Pasolini è un poeta civile, in primo luogo, e dunque non può starsene a guardare con gli occhi incantati di Penna quella dissoluzione.


[1] S. Penna, Poesie, Garzanti, Milano 2006, pag. 151.

[2] Anche Pasolini aveva scritto delle considerazioni importanti su questo aspetto temporale anomalo, nuovo e affascinante della poesia di Penna: “Ogni accenno naturalistico poi, per la stessa qualità dello stile, si configura come un paradigma del cosmo: non è mai visto e descritto se non in funzione dell’assoluto (non c’è mai un’indicazione di luogo, di tempo, una caratterizzazione linguistica locale o anagrafica); il particolare, che è sempre estremamente vivido (come osservatore della realtà in quanto mondo quotidiano, bisogna riconoscere a Penna una grande libertà e limpidezza) viene distratto dalla sua totalità reale e immesso in una totalità reale ma in un mondo percepito da una personalità che ne sia imbevuta e deformata. La vanità delle cose è uguale alla loro eternità. Dire ieri o dire oggi è l’identica cosa. Vedere il ripetersi previsto dei fenomeni, è stupendo e insieme doloroso”; in Penna. Una strana gioia di vivere, apparso su ‹‹Paragone››, a. VII, n. 76, aprile 1956; ora in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Meridiani Mondadori, Milano 1999, pag. 1135.

[3] Il giudizio di Anceschi è riportato da Pasolini nel saggio Penna. Una strana gioia di vivere, apparso su ‹‹Paragone››, a. VII, n. 76, aprile 1956; ora in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Meridiani Mondadori, Milano 1999, pag. 1130.

[4] P. P. Pasolini, ‹‹Segnalibro››, in S. Penna, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1970; ora in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Meridiani Mondadori, Milano 1999, pag. 2544.

[5] P. P. Pasolini, Penna. Una strana gioia di vivere, apparso su ‹‹Paragone››, a. VII, n. 76, aprile 1956; ora in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Meridiani Mondadori, Milano 1999, pag. 1137.

[6] C. Garboli, Avete mai provato, relazione che ha inaugurato il Convegno dedicato a S. Penna dal Comune di Prato nell’aprile 1985; ora in C. Garboli, Penna papers, Garzanti, Torino 1989, pag. 90.

[7] Così Pasolini definisce la resistenza all’analisi di alcuni prodotti puri della poesia di Penna, in Penna. Una strana gioia di vivere, apparso su ‹‹Paragone››, a. VII, n. 76, aprile 1956; ora in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Meridiani Mondadori, Milano 1999, pag. 1134.

[8] P. P. Pasolini, ‹‹Segnalibro››, in S. Penna, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1970; ora in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Meridiani Mondadori, Milano 1999, pagg. 2543-2544.

[9] P. P. Pasolini, Vita attraverso le lettere, a cura di N. Naldini, Einaudi, Torino 1994, pag. 142.

[10] P. P. Pasolini, Gli Appunti di Sandro Penna, in ‹‹Il Popolo di Roma››, 28 settembre 1950; ora in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Meridiani Mondadori, Milano 1999, pag. 352.

[11] P. P. Pasolini, ‹‹Segnalibro›› in S. Penna, Tutte le poesie, Garzanti, Milano 1970; ora in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, Meridiani Mondadori, Milano 1999, pag. 2543.

[12] P. P. Pasolini, Sandro Penna: Un po’ di febbre, in ‹‹Tempo››, a. XXXV, n. 23, 10 giugno 1973; ora in P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Meridiani Mondadori, Milano 1999, pag. 421-423.

[13] P. P. Pasolini, Sandro Penna: Un po’ di febbre, in ‹‹Tempo››, a. XXXV, n. 23, 10 giugno 1973; ora in P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Meridiani Mondadori, Milano 1999, pag. 423-425.

 

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