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Cose che si portano in viaggio – Recensione

Se proprio dobbiamo trovare una cosa buona da imputare al Covid-19 è che, finalmente, con tutto questo tempo da trascorrere in casa, abbiamo potuto placare la nostra fame di lettura. La mia era piuttosto avida e, dopo tanti classici, mi ha suggerito di tornare all’anno corrente e di acquistare una novità. È così che ho scelto “Cose che si portano in viaggio” di Aroa Moreno Durán, edito da Guanda; un po’ perché ero appena tornata da una toccata e fuga nella mia Sicilia e i miei genitori mi avevano fatto notare che in valigia avevo più libri che vestiti, un po’ perché avevo voglia di un nuovo viaggio e la trama è ambientata in un posto (e in un tempo) in cui non sono mai stata: a Berlino, nel periodo della cortina di ferro. Perfetto!

La copertina

La copertina, disegnata dall’illustratrice italiana Chiara Fedele, ha, sostanzialmente, due colori a contrasto: il ceruleo del cielo e del muro e lo scarlatto di un’unica finestra con la luce accesa e del maglione di Katia, la protagonista del romanzo. All’interno del disegno le Katia sono due, in due lati diversi del muro di Berlino, e questo ci annuncia già qualcosa della trama: ci fa capire sia che la ragazza non rimarrà solo nel lato Est, dove è nata, sia che questa decisione la spaccherà in due.
Scarlatto è anche l’elemento peritestuale della fascetta che avvolge la copertina, con lo strillo dello scrittore Fernando Aramburu che loda il talento della giovane spagnola.

Il titolo a stampatello, in caratteri bastoni, aleggia, centrato sul paesaggio e l’interlinea ampio e lo spazio arioso tra i caratteri gli conferiscono una forte leggibilità. In quarta di copertina leggiamo altri commenti positivi riguardo il romanzo, uscito in Spagna già nel 2017, ma giunto in Italia il 13 febbraio di quest’anno.
Analizzando il colophon ci cade subito l’occhio sulla dicitura “Questo libro è stampato con il sole”, e l’attenzione della casa editrice a un tipo di stampa carbon-free non può che essere un ottimo biglietto da visita nel periodo storico nel quale viviamo, in cui l’emergenza climatica è un problema di cui non si parla mai abbastanza.
Sull’aletta anteriore ci cattura la trama del romanzo e in quella posteriore la breve biografia della scrittrice esordiente nel genere narrativo, corredata di una sua bella foto a colori in cui sorride.

La trama di Cose che si portano in viaggio

Il romanzo racconta la storia di Katia, nata (insieme alla sorella) nella Berlino Est, da genitori spagnoli sfuggiti al regime di Franco. La piccola famiglia vive nella DDR, la Germania assegnata all’Unione Sovietica, e le giornate non sono affatto facili: il cibo è razionato e la libertà fortemente limitata.
Katia, però, fa un incontro che le sconvolge la vita: nel 1970 conosce all’interno di una libreria Joahnnes, un ragazzo che vive dall’altra parte del muro, e comincia così la prima vera storia d’amore della sua vita, con una poesia di Neruda e un libro lasciato davanti la sua porta. È un amore che la convincerà a fuggire dalla sua casa e a lasciare la sua famiglia, nel cuore della notte, per oltrepassare il confine.

Il romanzo si snoda in 36 anni, dal 1956 al 1992, tutti segnalati all’inizio di ogni capitolo. Le quattro parti che lo compongono hanno una divisione di tipo geografico: la Berlino in cui nasce Katia, i luoghi che attraversa durante il suo viaggio clandestino, il lato Ovest, e, di nuovo, il suo luogo di nascita, che in un certo senso ha tradito ed è infatti segnalato con il titolo “Vaterland: la terra di mio padre”.
Elemento fondamentale della storia, che troviamo all’inizio del libro e nella sua parte finale, è una valigia di carta piena di ricordi che sarà cardinale nello svolgimento del racconto, il perché lo lascio scoprire al lettore.

Lo stile di scrittura

Lo stile della Durán è molto fresco e scorrevole, il libro si legge in poche ore, senza particolari difficoltà.
La psicologia dei personaggi, a mio avviso, meritava un approfondimento. Mi sono ritrovata a non amare particolarmente Katia nella seconda parte del libro: ho percepito un appiattimento della sua personalità e dei suoi pensieri riguardanti Joahnnes e in generale la sua scelta di cambiare vita.
Inoltre, devo ammettere che mi sarei aspettata una descrizione dettagliata della Berlino divisa in due, con le differenze delle rispettive parti.

I dialoghi, non segnalati né da caporali né da virgolette alte, rendono abbastanza ostica la lettura prima di abituarsi completamente allo stile della scrittrice.
Infine, il racconto, in prima persona per gran parte del libro, cambia repentinamente in terza persona nell’ultima parte, spaesando il lettore. È probabile che questa decisione sia avvenuta per segnare, in maniera evidente, il rientro a casa di Katia ma, personalmente, non l’ho trovata una scelta calzante.
Tutto sommato, però, è una lettura gradevole che ci catapulta nel pieno delle sensazioni provate durante il primo amore e che ci ricorda l’importanza dei nostri affetti familiari.

E voi lo avete letto? Lo porterete con voi nel vostro prossimo viaggio?

 

Anna Mazza