Recensioni

Abbandonare un gatto di Haruki Murakami – Recensione

Succede spesso di associare al ricordo di una persona cara non i grandi avvenimenti, ma quelle piccole circostanze della vita quotidiana, a tratti banali.
Haruki Murakami, scrittore di fama mondiale che tutti, chi più e chi meno, abbiamo imparato a conoscere, con questo presupposto introduce il racconto Abbandonare un gatto, in cui parla del padre partendo da un episodio della sua infanzia, che dà appunto il titolo all’opera. È stato pubblicato in Giappone nel febbraio 2020 per la rivista “Bungeishunjū”.

L’edizione italiana e i suoi attori

In Italia il racconto è edito da Einaudi dal gennaio 2021, ormai fedelissimo bacino di diffusione delle opere di Murakami nel nostro paese.

E sempre fedele è Antonietta Pastore, traduttrice dell’autore giapponese dal 1997. Tra gli altri, è anche la voce italiana per numerosi scrittori nipponici, tra cui Inoue Yasushi e Kawakami Hiromi, ma anche grandi scrittori del passato, come Ryūnosuke Akutagawa e Natsume Sōseki. Una traduzione quindi di grande livello, capace di omologarsi allo stile degli scrittori originali, non importa quanto diversi fra loro (per esempio, dove Sōseki esplora in profondità la psicologia umana, Murakami utilizza un linguaggio semplice e colloquiale).

Contribuisce alla traduzione anche Andrea Maurizi, professore di lingua e letteratura giapponese alla Bicocca di Milano: lavora infatti all’haiku presente a pagina 49. A riconferma che dietro alla creazione del libro c’è un intenso lavoro di ricerca.

 

È una novità il lavoro di illustrazione sia sulla copertina che all’interno del blocco libro. Mente brillante del progetto è Emiliano Ponzi, famoso illustratore rinomato in tutto il mondo che collabora con numerose testate (prima fra tutte il “New York Times”, ma anche il “New Yorker” e in Italia con “Repubblica”) e marchi (Apple, TIM, Armani, Feltrinelli, Lavazza, Mondadori, Gucci, ecc…). È anche autore del silent book per Penguin Books The Journey of the Penguin.

Illustrazioni e paratesto

Come Ponzi racconta in questa intervista per “la Nuova Ferrara” Einaudi lo ha ingaggiato per il progetto dopo aver visto le illustrazioni realizzate per lo stesso racconto, pubblicato l’anno prima, per il “New Yorker”. I bozzetti a matita sono poi stati mandati a Murakami stesso, che li ha approvati a pieno titolo. Il tratto semplice quanto evocativo arricchisce le pagine del libro e la sovracopertina stesa, in carta patinata lucida.

 

© Emiliano Ponzi

E non solo. Il formato rilegato (con una marcatura a effetto tela di un tenue color menta per la copertina) all’interno è impreziosito da dei risguardi illustrati – una serie di silhouette di gatti rosa in varie pose su sfondo viola.
Il blocco libro, differentemente dagli altri romanzi scritti di Murakami, è costituito da pagine in carta patinata opaca. Il tutto completato da una fascetta di un rosso vivace con su scritto «Murakami inedito», per attirare ancora di più l’attenzione di un potenziale lettore.

Esplorato l’involucro, è il momento di varcare la soglia e addentrarci alla scoperta del racconto (pseudo) biografico.

Tra luce e ombra

Chiaki Murakami è figlio di un monaco buddhista, priore di un tempio a Kyōto: fin da piccolo lui e i cinque fratelli vengono educati al fine di seguire le orme del padre. Ma la vita (e la storia) hanno altri piani. In più occasioni Chiaki viene infatti richiamato alle armi, riuscendo a sfuggire alla morte più volte per una serie di fortunati eventi. Ma questo non lo risparmia dagli orrori che la sua generazione, devastata dalla guerra, si porta appresso come un macigno. A Chiaki non piace parlare della sua esperienza nell’esercito, eppure i pochi episodi che racconta al figlio sono crudi, decisamente non adatti a un bambino: per abituarle a uccidere, le reclute spesso venivano costrette ad adempiere alle esecuzioni dei prigionieri nemici.

«In ogni modo, la scena crudele di un uomo decapitato con una spada, va da sé, rimase fortemente impressa nella mia mente di bambino. In altre parole, quel pesante fardello che mio padre si portava dietro – oggi si direbbe il trauma – lo ha poi trasmesso in parte a me, suo figlio. È così che funzionano le relazioni umane, è così che funziona la storia. […] Mio padre non parlava mai della sua esperienza al fronte. E non aveva certo piacere di ricordare o descrivere un’esecuzione alla quale aveva partecipato, o assistito. Tuttavia aveva provato il bisogno di trasmettere a me, sangue del suo sangue, il resoconto di quell’episodio, a rischio di lasciare una ferita nello spirito di entrambi».

Ma non sono solo la guerra e l’educazione monastica a formarlo come persona. Chiaki è infatti un grande appassionato di letteratura e, in particolare, di haiku, una forma di composizione poetica semplice nella struttura ma intensa nel messaggio che trasmette. Ne compone un gran numero, forse proprio come mezzo di evasione dalla cicatrice che è la sua esperienza militare. Dopo il diploma, entra nel dipartimento di Letteratura dell’Università imperiale di Kyōto, per poi diventare insegnante in una scuola a Nishinomiya. Il fascino degli haiku e della letteratura non lo abbandoneranno mai (tanto che contribuisce alla fondazione della rivista di poesia “Kyōrokushi” e organizza tornei di scrittura tra i suoi studenti), ma sarà proprio questa dedizione accademica l’input per l’allontanamento dal figlio.

Haruki infatti è uno studente svogliato, non incentivato da un sistema scolastico «monotono e repressivo».

«Questo ha portato mio padre a una cronica frustrazione e me a un cronico malessere (con una componente inconscia di collera). […] Ancora oggi, malgrado tutto, continuo ad avere la sensazione – o per lo meno il vago sospetto – di aver sempre deluso mio padre, di aver tradito le sue speranze».

I rapporti si raffreddano sempre di più, concludendosi in una sorta di riconciliazione a pochi giorni dalla morte del padre, ricoverato in ospedale per una grave forma di diabete e un tumore ormai diffuso in tutto il suo corpo (piccola nota: questo loro ultimo colloquio alla lontana ricorda l’ultimo “’incontro” tra Tengo e il padre in 1Q84. Che la realtà abbia influenzato la finzione?).

Ma qui si percepisce qualcosa di non detto. Murakami è stato particolarmente prolifico nel raccontare le esperienze del padre, eppure quando deve trattare del loro rapporto diventa sfuggente, lasciando spesso il discorso in sospeso, non entrando nemmeno nel dettaglio del loro “patto di pace”. Perché? Forse non è ancora riuscito a farsi scivolare di dosso quel senso di colpa che percepiva nei confronti del padre, per non aver seguito i suoi desideri: parlarne approfonditamente lo concretizzerebbe troppo, costringendolo ad affrontarlo, e lui non è ancora pronto.
Nonostante ciò, riconosce quanto il padre lo abbia aiutato a diventare la persona che è oggi, quanto è stato importante nel suo percorso, tanto da dedicargli un racconto. Ma è solo questo il soggetto della penna di Murakami? No, perché parliamo dell’importanza dei ricordi, dell’influenza della guerra su una persona e sulla Storia, con la S maiuscola. E lo dichiara lui stesso nella postfazione dell’opera:

«Se il destino di mio padre avesse imboccato una strada anche solo un poco diversa, non sarei esistito. La storia è questo: l’unica eventualità, fra innumerevoli altre, che si è attuata, senza se e senza ma. La storia non appartiene al passato. È qualcosa che fluisce nella coscienza umana, o forse nell’inconscio, è una corrente di sangue vivo e caldo che, volenti o nolenti, ci trasmettiamo da una generazione all’altra. In questo senso, ciò che ho scritto è una vicenda individuale, ma al tempo stesso un tassello della grande storia che ha formato il mondo nel quale viviamo».

Asia Righi