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Il Serpente di Stig Dagerman – Recensione

Nell’autunno del 1945 un nuovo, giovane talento veniva riconosciuto nel mondo letterario svedese: Stig Dagerman, appena ventiduenne, esordiva con il suo primo romanzo, Il Serpente. Benché sia l’esordio del celebre scrittore, Il Serpente è rimasto inedito in Italia finora, ed è stato pubblicato per la prima volta da Iperborea nel gennaio 2021.

Dagerman, nell’anno della sua prima pubblicazione, per quanto giovanissimo, era già attivo nello scenario culturale e politico svedese: attivista e militante anarchico fin dall’adolescenza, era caporedattore della rivista “Arbetaren” per la quale già da tempo scriveva poesie e articoli di critica. Con la pubblicazione del Serpente entrò ufficialmente a far parte della cerchia dei letterati più influenti della sua epoca.

Già dalla prima pubblicazione, la critica ebbe problemi a catalogare questo libro in un genere letterario ben definito: Il Serpente è infatti un romanzo dalla struttura del tutto singolare. I protagonisti della prima parte (Irène) infatti scompaiono completamente nella seconda (Non riusciamo a dormire), che apre le porte a una serie di capitoli – o racconti? – nei quali a prendere la parola sono una serie di personaggi appartenenti ad uno stesso scenario, una caserma militare di Stoccolma. Le voci e i punti di vista continuano ad alternarsi di capitolo in capitolo richiedendo al lettore estrema attenzione. Per capire e collegare le vicende narrate – a volte addirittura solo alluse – è necessaria un’attiva partecipazione; solo raccogliendo tutti gli indizi, racchiusi all’interno del libro come in scatole cinesi, sarà possibile riconoscere e capire il senso vero della trama e il suo messaggio.

Il testo, che inizialmente sembra un insieme sconnesso di racconti, è in realtà ricco di anticipazioni, allusioni e rimandi interni che creano coerenza e riportano il lettore sempre verso gli stessi due temi ricorrenti: la paura e l’angoscia. Il Serpente è infatti un romanzo sul senso di colpa e sul terrore, è un libro in grado di esprimere il clima di inquietudine e sgomento creato dagli orrori della guerra e il rettile velenoso ne rappresenta il simbolo più potente, dal quale non si può fuggire.

Corrono leggeri per i prati, alcuni forse giocano addirittura al calcio, facendo finta di non sapere che si trascinano dietro la loro paura come una palla di cannone al piede. Forse si illudono che ci si vaccini contro la paura come contro il vaiolo. Poi arriva un giorno in cui un serpente sparisce in una stanza. Ci si dispera, lo si cerca, ma non si riesce a trovarlo. Cosa bisogna fare? Allora si capisce che la paura è una malattia che è sempre lì, latente, che cerca di strisciare lungo i più sottili filamenti della coscienza e li punzecchia finché si scaldano e bruciano.

Dagerman usa parte della sua esperienza per gettare le basi di questo romanzo. Il richiamo alla vita militare dell’autore è infatti evidente; ciò nonostante non è corretto definire Il Serpente un volume di memorie o una descrizione della vita militare. La caserma è solo un espediente per toccare temi molto più profondi e generali.

La prima parte del romanzo si intitola Irène ed è un lungo racconto ambientato in un campo di addestramento della campagna svedese. Qui il serpente compare per la prima volta nella sua forma concreta di rettile velenoso e viene catturato da Bill, una giovane recluta, che lo nasconde nel suo zaino. Questo gesto, compiuto a cuor leggero, disturberà profondamente la quiete del soldato e delle persone che lo circondano: il serpente, che crede di avere al sicuro nello zaino, si tramuterà in angoscia e infesterà i sogni di Bill, getterà nel panico gli amici e confonderà realtà e fantasia tanto a lui quanto a Irène – personaggio che dà il titolo al racconto.

La seconda parte, Non riusciamo a dormire, è, come già detto, composta da sei capitoli raccontati dalle diverse voci dei soldati di una caserma di Stoccolma. Per comprendere appieno il nesso tra le due parti, il lettore deve attendere fino al penultimo capitolo, intitolato proprio Il Serpente, in cui viene svelato che il rettile catturato da Bill finisce, forse per volontà dello stesso Bill, nello zaino di un’altra recluta che, dopo aver partecipato alle esercitazioni in campagna, viene inviata alla caserma di Stoccolma. Qui il serpente si libera, spargendo il panico tra i soldati di una camerata che, proprio per questa ragione, oppressi dall’angoscia, non riescono a dormire.

È solo che, quando il caporale di giornata spegne la luce sul soffitto dopo il passaggio di consegne e noi ci infiliamo sotto le coperte polverose e pesanti, ognuno di noi sente all’improvviso un vago, pungente odore di paura salire dalle fessure del pavimento. Noi cerchiamo di difenderci. Magari ci tiriamo le coperte sopra la testa e ci tappiamo le orecchie con le mani, gelate dopo la visita ai bagni. Dopo un po’ però dobbiamo arrenderci.

Qui il serpente è la manifestazione vera e propria della paura, di quella paura che – come ci insegna il personaggio Scriver nell’ultimo capitolo – è inestirpabile dalla condizione umana. Questo terrore è onnipresente e ricorre nel testo non solo attraverso la figura concreta del rettile, ma anche nel suo continuo riapparire sotto forme metaforiche: al serpente assomiglia la lingua di una vecchia, serpenti sono le file di soldati alla mensa, Bill sogna che una granata gli esploda tra le mani e i frammenti della bomba siano come serpentelli.

E se il serpente rappresenta la paura, l’anello di ferro rappresenta l’angoscia che ne consegue. È questa la seconda figura metaforica che spesso ricompare all’interno del libro. Lo si incontra per la prima volta dentro Irène, quando un sergente scorge il serpente strisciargli a fianco e viene colto da un crampo che «lo stringe come un cerchio di ferro». Il cerchio di ferro è il titolo stesso di uno dei capitoli del libro in cui l’anarchico Edmund paragona l’anello al senso di angoscia che deriva dal sentirsi inerme e in potere dello Stato. Ancora una volta è un cerchio di ferro quello che compare attorno al bambino che viene portato via da uno sconosciuto vestito di nero e mentre il soldato Sörenson assiste alla scena senza intervenire – forse per codardia, forse per indifferenza – è un anello di acciaio che si stringe tutto attorno a lui, soffocandolo.

La ricchezza del linguaggio metaforico è sicuramente il punto di forza del romanzo, ma altrettanto importanti sono temi come la critica allo stato, alla guerra e alla realtà militare crudele e oppressiva. Torna ancora una volta lo spirito di ribellione e insofferenza nei confronti della realtà, trama sempre presente nei lavori di Dagerman.

È evidente come lo scrittore abbia qualcosa di importante da dire, come cerchi disperatamente di comunicare al lettore un messaggio importante, quasi come se volesse salvarlo. Questo «insopprimibile bisogno di comunicazione» accompagna Dagerman per tutta la sua vita di scrittore, ma si trasforma inesorabilmente, sfociando sempre di più nella negatività. Lo troviamo di nuovo in Bambino bruciato che, con il suo crudo realismo, parla delle contraddizioni e dell’ingiustizia della vita e di come alla fine l’uomo si ritrovi inevitabilmente smascherato da essa. Ritorna anche in Il nostro bisogno di consolazione, monologo scritto da Dagerman per un giornale solo pochi anni prima di togliersi la vita. In questa sua ultima opera il lettore assiste alla distruzione di tutte le proprie speranze e viene lasciato nudo e inerme di fronte alla realtà: non c’è via di fuga per l’uomo da una vita di angoscia e dolore.

Ma a questa condizione di infelicità esistenziale, l’uomo deve dare una risposta e, come dice Dagerman attraverso Scriver nell’ultimo capitolo del Serpente, questo compito spetta allo scrittore, la cui paura «è la più grande del mondo»:

Allo stesso modo l’essere umano angosciato deve avere come simbolo chi è andato fino in fondo alla sua paura, chi ne sa di più e la teme meno, perché è sua costante abitudine frequentarla. Quell’essere umano è lo scrittore. E dunque, essere scrittore non significa avere una paura che è più grande di quella di chiunque altro al mondo?

 

Alice De Angeli