Recensioni

La malattia tra ombre e inaspettate luci

di Lorenzo Cetrangolo

Marco Neirotti
Stazione di sosta (Cronaca di un cancro)
Collana: Passio
Interlinea, 2015
pp. 152, 12 €

stazione di sosta1«Da malati si capisce di non vivere soli, ma incatenati a un essere di un altro dominio da cui ci separano abissi, qualcosa che non si conosce e da cui non riusciamo a farci comprendere. Il nostro corpo»È una frase di Proust, posta anche in epigrafe alla fine del piccolo, elegante diario di Marco Neirotti, a indicarci uno dei possibili punti di fuga di queste pagine leggere, chiare, in cui si danza in punta di piedi attorno alla pesante penombra del Male per antonomasia: il cancro.

Neirotti registra in presa diretta, senza troppo aggiustare col senno di poi, l’ordalia lenta che un carcinoma orale ha portato con sé nella sua vita di giornalista realizzato, di marito e padre. Un male non letale ma non per questo scevro del bagaglio di angosce, ripensamenti, valutazioni che il cancro sempre porta con sé. Nella lotta alla malattia, tra visite, trattamenti, medici e ospedali, il rapporto col proprio corpo, un rapporto pervasivo eppure spesso incomprensibile, è una linea stesa sul fondo del racconto ad accompagnarne l’incedere cauto e sottile.

Ciò che equilibra le ombre che si allungano, questa oscurità grigia che torna spesso nelle fantasie e nei sogni di cui Neirotti dà conto, è la grazia rarefatta e gentile della prosa, in cui le paure sono disegnate in punta di penna, stemperate da un’ironia leggera, asciutta, e da un impianto di rimandi e riferimenti (letterari, soprattutto, ma anche aneddotici) che mettono in luce la dualità dell’uomo malato: da un lato un corpo, sommerso dalle onde del dolore e dello sconforto, che lotta contro e per se stesso, e dall’altro una sempre in fondo luminosa, benché a tratti offuscata, coscienza, che è il fulcro dell’esistere e che si appoggia, nell’inquietudine, alla letteratura, alla poesia, agli affetti, ai ricordi. Una rete di senso su cui continuamente, senza accorgercene, facciamo affidamento, e che è il vero tesoro da cui si può trarre forza nel pellegrinaggio sfiancante attraverso la malattia.

Neirotti si racconta con uno stile misurato, che deve tanto alla sua esperienza a “La Stampa” come inviato per alcuni degli avvenimenti più tragici della nostra storia recente come il rogo alla ThyssenKrupp o il terremoto de L’Aquila: avvenimenti che necessitano, giocoforza, di un racconto delicato, rispettoso, che sia sincero ma ben pesato, sospeso tra il dovere di cronaca e il rispetto per l’umano.

Oltre l’umano sta poi, verso la fine, il cuore segreto e invisibile della questione, che è il disumano della fede, del sacro, di ciò che non riusciamo a toccare e di cui abbiamo solo la percezione di un’eco. È nel rapporto sempre incerto con quell’invisibile, e nel chiaroscuro di luci e ombre che compone la nostra esistenza, che si stagliano le forme della vita: tutte parti egualmente importanti di ciò che siamo, nel bene e nel male.

«Se ogni giorno si potesse riavvolgere e ripetere da capo […] la vita sarebbe un lavoro, una finzione, sfiancante e sterile. Vale la pena anche piangerla.»

Fonte foto: http://ecx.images-amazon.com/images/I/4113wGYk0ML._SX366_BO1,204,203,200_.jpg