La responsabilità di scrivere a lettori sconosciuti. I risvolti firmati dall’editor di Utopia Gerardo Masuccio
Prima di girare tra gli stand del Salone del libro di Torino non avevo idea che esistesse una giovane casa editrice milanese chiamata Utopia. Un nome originale, insolito, ho pensato, perché non credo che i nomi di molte case editrici inizino con la lettera “u”. Incuriosita, mi avvicino al banco di libri, attirata dai colori delle copertine.
Il contrasto cromatico e la particolarità iconografica della copertina mi spingono a prendere La fiaba nucleare dell’uomo bambino di Hamid Ismailov tra le mani. Chi studia editoria ben conosce il concetto di “soglia” elaborato da Gérard Genette e io sapevo di averne appena attraversata una. Volto il libro, convinta di trovare una descrizione della trama in quarta di copertina, ma non c’è. Poco male, sarà in uno dei risvolti, mi dico. In quello di quarta trovo una breve biografia dell’autore e diverse informazioni sulla traduzione, in quello di prima trovo sì qualcosa sulla trama, come avevo sperato, ma anche qualcosa di più: una lettera a un lettore sconosciuto.
Firmata dall’editor Gerardo Masuccio, la lettera di cui mi sento destinataria mi permette di capire cosa lui per primo, in veste di lettore, abbia trovato avvincente in questo testo per inserirlo nel catalogo della casa editrice. Ed è proprio la comprensione delle sue ragioni a convincermi ad andare alla cassa per acquistare il libro, dove, ignara di avere davanti Gerardo stesso, gli confesso di essere rimasta davvero colpita da quanto ho letto nel risvolto. All’affermazione: «beh, puoi prendertela con me se poi il libro non ti piace» non ho potuto evitare di chiedergli quando potesse rispondere a qualche domanda in più su Utopia e sui suoi libri.
Il catalogo descrive Utopia come «la più giovane delle case editrici». Quali sono le radici di questa casa editrice fondata nel 2020?
Credo che non ci sia un momento preciso in cui il progetto si è veramente radicato in me. Ho fondato Utopia col sostegno di una squadra in gamba, però la vocazione editoriale era in me già da molto tempo. Penso di essere stato un lettore precoce e al contempo una persona che amava porsi domande su molti aspetti dei libri che un semplice lettore non tiene in considerazione: chi li avesse scelti, da dove venissero, chi avesse deciso quale carta adoperare, i colori, le copertine, ecc. Ho capito dopo, ovviamente, che si trattava di un amore per l’editoria, l’ho razionalizzato negli anni del liceo, provando anche a capire quale fosse il percorso più giusto per arrivare a fondare una casa editrice. Una volta iscritto all’università ho avuto dei buoni maestri che mi hanno indirizzato verso “facoltà utili” per arrivare dove sono oggi. Mi sono iscritto prima a Giurisprudenza per laurearmi in diritto d’autore, poi a Economia per laurearmi in editoria libraria, mentre seguivo un percorso di studi personali di letteratura. Dopo la seconda laurea ho svolto un periodo di apprendistato in Bompiani. Dopo due o tre anni circa mi sentivo pronto per fondare una casa editrice mia, che avesse l’obiettivo di pubblicare solo letteratura di qualità, senza compromessi commerciali.
Immagino che il progetto abbia iniziato a muovere i suoi primi passi in salita a causa della pandemia. Qual è stato il suo impatto sulle prime pubblicazioni?
Sì, incidentalmente tutto questo è successo venti giorni prima dello svuotamento di massa dei supermercati qui a Milano. Secondo me quanto è accaduto è stato un vantaggio, non uno svantaggio per la casa editrice, perché mentre Utopia nasceva in controtendenza rispetto all’industria nazionale, i giornalisti si sono subito accorti che nella stasi collettiva o nell’assopimento coattivo – perché non è stata colpa di nessuno, ma c’è stato – invece una giovane realtà si stava iniziando a muovere. Penso che se Utopia fosse nata in un periodo normale, ordinario, non sarebbe diventata la piccola casa editrice che è e non avrebbe avuto la stessa rapida crescita; sarebbe stato più difficile “rincorrere gli altri”, invece noi siamo partiti a ruote ferme ed eravamo molto veloci, mentre gli altri erano inevitabilmente obbligati alla stasi. Ciò non vuole togliere nulla alla complessità del periodo, però quando noi siamo nati la parte iniziale era pura progettazione, non c’erano libri da portare in libreria, anche perché le librerie erano chiuse in quel momento. Però a settembre 2020, quando sono usciti come da programma i primi libri di Utopia, il sistema era tornato a regime determinando un successo immediato, nel senso che con i primi due volumi abbiamo raggiunto delle tirature, stando alle richieste dei librai, da grande casa editrice. Da un lato è stata fortuna, dall’altro è stato un programma, un piano di lavoro molto dettagliato. Per questo non penso che la pandemia, tutto sommato, abbia comportato uno svantaggio per la casa editrice. Forse il nostro nome si è incastonato alla perfezione nel periodo storico, no? La letteratura, l’utopia nel tempo della pandemia.
Parlando strettamente dei libri, se graficamente non sembra esserci alcuna distinzione tra i vari titoli, in copertina viene comunque indicata una sorta di divisione tra letteratura europea e letteratura straniera. Per questo mi domando: si può parlare di collane per i libri di Utopia?
Sì, in senso stretto sono due collane diverse, vengono classificate e catalogate come collane nelle librerie fisiche e in rete. C’è una collana di letteratura italiana ed europea e c’è una collana di letteratura straniera. Siccome in casa editrice siamo tutti nati nei primi anni novanta, quindi siamo una generazione europea, degli anni di Maastricht, ci sembrava anacronistico utilizzare la dicotomia storica dell’editoria novecentesca, che semplicemente divideva i titoli di letteratura italiana da quelli di letteratura straniera. No. Per noi la letteratura è europea oppure straniera. Così abbiamo deciso di tenere queste due etichette, che in realtà sono delle etichette di pura forma, nella misura in cui non c’è nessuna variazione grafica della copertina. Le copertine sono tutte uguali, come hai ben notato. C’è un computo di codici diverso, ma nient’altro, proprio perché sono le due collane fondanti – per il momento le uniche – della casa editrice; al di là dell’appartenenza geografica e culturale degli autori non le differenzia nulla.
Il paratesto è estremamente suggestivo. In particolare, qual è la scelta che si cela dietro agli elementi che compongono la prima copertina?
La copertina è stata progettata da Giovanni Cavalleri, che è il grafico della casa editrice, ed è sempre la stessa con un ricambio legato ai colori e all’iconografia. La gabbia è una sezione aurea, ossia quella che in geometria e in matematica è la trasposizione dell’utopia, cioè l’asintoto, l’approssimarsi alla perfezione nella piena consapevolezza che la perfezione non si può mai raggiungere. Per me questa, in altre maniere, è la definizione di utopia. Ogni volta noi realizziamo quella che Calasso chiamava ecfrasi capovolta, cioè il tentativo di rappresentare in immagini – quasi una sinestesia – il senso di un libro. L’immagine è una sorta di spiegazione in colori e in tonalità, in forme e in geometrie di ciò che la parola scritta prova a trasferire all’interno del testo.
Un altro elemento distintivo è sicuramente il logo a forma di U. È stato realizzato da Francesca Pignataro, a cui Giovanni Cavalleri e io abbiamo delegato la scelta di questa immagine che avrebbe accompagnato per tutta la sua vita la casa editrice. Si tratta di una lettera poco adoperata nella nostra editoria, nel nostro caso è caratterizzata da un motivo di ricorsività, da una spirale di linee parallele che a un certo punto s’intrecciano. Quello che io avevo suggerito a Francesca era un’alternanza di linee che in qualche modo evocasse la pagina di un libro che si apre, ma anche una certa geometria per richiamare la gabbia di copertina, rifacendosi sempre al concetto di approssimazione alla perfezione.
Penso che i libri di Utopia siano gli unici a recare una lettera al lettore sconosciuto nel risvolto di prima. Da cosa deriva questa scelta?
L’aletta di copertina è firmata direttamente da me, perché io da lettore sono molto deluso dall’editoria, specialmente da quella maggiore che reputo perlopiù mediocre al giorno d’oggi. Ogni volta che mi imbatto in un libro, tendenzialmente in un libro pessimo, vorrei individuare la persona che l’ha scelto e non mi capita mai di poterlo fare. Questo perché le grandi case editrici sono un’astrazione pura. C’è un nome, qualcuno le ha fondate cinquanta, settanta, cento anni fa e sì, gli addetti ai lavori possono sapere chi sono gli editor, però bisogna provare a mettersi nei panni del lettore: di fronte a tutti questi libri che circolano in libreria, e che tutti all’unanimità della critica considerano “brutti”, con chi deve prendersela? Non lo sa. Allora, quando ho pensato che avrei fondato una casa editrice di cui sarei stato, tra le altre cose, l’editor, ho deciso, per un’assunzione di responsabilità, di sostituire la sinossi con una lettera al lettore. È un’epoca in cui di sinossi sul e nel libro non c’è più bisogno, perché con degli strumenti avanzati come i nostri facilmente le trame dei libri si trovano su tutte le piattaforme online e in tutte le lingue. Per questo, secondo me, è molto più interessante che il libro riporti le ragioni per cui l’editor lo ha scelto e non qualche elemento di trama. Poi nelle mie lettere non manca un riferimento anche a ciò di cui il libro parla, a quello che il libro veicola, però innanzitutto è un modo per avere un confronto diretto tra un lettore che sceglie i libri, cioè io, e un lettore che li compra in libreria. È uno scambio di idee vivo, molti mi rispondono, ricevo almeno una cinquantina di mail a settimana da parte di lettori che a volte contestano, a volte approvano le mie scelte, altre volte arricchiscono la mia lettera… perciò è anche un modo per intavolare una sorta di conversazione letteraria di cui sono sempre molto contento!
Anna Sardano
Si ringrazia l’editor Gerardo Masuccio per la disponibilità.