“Senza respiro” di Raffaella Mottana: dov’è il confine fra il dolore e il piacere?
Arriva un altro schiaffo, poi un altro. Gli occhi si riempiono di lacrime, respirare si fa ancora più difficile. Non riesce a trattenere un singhiozzo rumoroso. Si morde l’interno delle labbra, quando Tommaso le dà un altro schiaffo sente il sapore del sangue in bocca. Inizia a piangere.
«Va tutto bene» le dice, mentre continua a colpirla. «Ci sono io».
L’esordio dell’autrice milanese Raffaella Mottana (classe 1995) è uscito a ottobre 2022 per Accento, la casa editrice fondata da Alessandro Cattelan e Matteo B. Bianchi quello stesso anno. Si inserisce nella collana “Accento Acuto”, la collana principale della casa editrice, dedicata agli esordienti. Le altre due collane sono “Accento grave”, focalizzato sui recuperi o sulle riscoperte, ovvero testi andati fuori catalogo oppure mai tradotti prima, e “Dieresi”, una collana di saggi contemporanei, anticonvenzionali e decisamente pop.
“Accento Acuto” viene così chiamata perché la collana raccoglie i debutti dei narratori e le narratrici le cui proposte hanno appunto uno spirito acuto, capace di narrare con un guizzo diverso la contemporaneità, e Raffella Mottana rientra senza dubbio fra questi. Prima della pubblicazione, l’autrice aveva frequentato la Bottega di narrazione di Giulio Mozzi, dove ha iniziato a prendere forma questo romanzo, segnalato peraltro alla XXXIV Edizione del Premio Italo Calvino. Senza respiro ha fatto inoltre parte della cinquina finalista del Premio Opera Prima, dove si è aggiudicato la menzione per la curatela editoriale.
Il romanzo si divide nettamente in due parti molto diverse fra loro, eppure strettamente correlate. Nella prima parte la protagonista ventiduenne Cecilia assiste al progressivo peggioramento della malattia della madre, ricoverata da tempo in ospedale e sottoposta a chemioterapia. Per quanto possa provare a distrarsi, ad andare anche in vacanza in Francia con la zia Lucia, il pensiero della madre è sempre presente, e diviene centrale quando il padre la chiama e le dice di tornare a Milano, perché le condizioni di salute della madre si sono aggravate. Qui inizia il calvario finale, che non concede sconti a nessuno. La zia, il padre, la sorella Greta e la stessa Cecilia vedono la madre spegnersi sempre di più, fino a non riuscire più a parlare, fino a non riuscire più a respirare, ma solo a emettere rantoli.
Il capannello di persone si schiude e Cecilia vede la mamma. La testa nuda è rivolta all’indietro, preme contro il cuscino. Gli occhi sono enormi, le labbra livide sono aperte, la bocca è spalancata. È da lei che viene quel suono, quel risucchio roco e affannoso.
La prima parte si conclude con il funerale della madre. Quattro mesi dopo, la notte di Capodanno, Cecilia conosce Andrea e inizia a frequentarsi con lui. Una volta in cui fanno sesso, lui le mette una mano sul collo e stringe. Lei capisce che la cosa le piace, la eccita, ma quando gli chiede di ripetere l’esperienza lui si rifiuta, sembra disgustato. Non si vedono più, lei intanto si informa sull’asfissia erotica, detta breath play in inglese, e scopre su Facebook il munch, un aperitivo informale BDSM, in cui ci si conosce, ci si scambiano informazioni, e poi chi vuole gioca. Corde, collari, coltelli, schiaffi, cinture, bisturi. Tutto è concesso, a patto che ci siano il consenso e le safe word, che corrispondono ai colori del semaforo. “Verde” va tutto bene, “giallo” attenzione, “rosso” bisogna fermarsi. In uno di questi incontri, di cui Cecilia diventa assidua frequentatrice mentendo al padre e alla sorella, la protagonista conosce Tommaso, un trentaseienne dominatore con cui condivide la passione per la fotografia. Insieme scattano foto artistiche, vanno nella casa in montagna di lui o a mangiare hamburger nei luoghi in cui Cecilia andava al liceo, e ovviamente giocano.
Risiede in questo preciso punto la peculiarità e il fascino di questo romanzo, nel confine labile e incerto fra piacere e dolore. Cecilia si fa picchiare, strozzare, comandare da Tommaso: dopo, segue un rituale di pulizia del corpo praticamente identico a quello che usava quando la madre era malata. La scrittura chirurgica, fredda, asettica, è lo stile perfetto per questo romanzo, probabilmente l’unico adatto. Non c’è una parola che non sia necessaria, nella prosa di Mottana, nessun sentimentalismo, nessun pietismo, nemmeno un aggettivo di troppo. Sembra, a volte, che l’autrice descriva le azioni che la protagonista compie come fossero un rituale, o come se Cecilia stesse seguendo scupolosamente un libretto delle istruzioni. Mettersi i guanti, la mascherina, lavarsi le mani, disinfettarsi. E poi, dopo che è la madre è morta: coprire i lividi in faccia con il fondotinta, applicare i cerotti sui tagli, lavarsi dopo aver giocato. Una serie di azioni che la protagonista esegue quasi fosse un automa, con grande distacco da sé stessa, lo stesso distacco che pare, ma solo in superficie, allontanare il personaggio dal lettore, sensazione accentuata dal narratore in terza persona. Non sappiamo mai cosa pensa Cecilia, come si sente, se soffra. Mottana fa l’unica cosa necessaria che una scrittrice dovrebbe fare: quel dolore, in tutta la sua stranezza e inspiegabilità, lo mostra.
Nel titolo si coglie appieno tutto il senso del romanzo, in quell’essere senza respiro. È senza respiro la madre morente, senza respiro Cecilia con il collo bloccato dal collare ansimante dal piacere, senza respiro i lettori che, pagina dopo pagina, non possono fare a meno di restare agganciati alla storia.
Maria Luisa Da Rold