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Incomprensibile, addio

di Lorenzo Baccari

Antonio Moresco
L’addio
Collana: Scrittori Giunti
Giunti, 2016
p. 288, 15 €

addioTre grattacieli «appena sorti e già fatiscenti» che s’innalzano a spirale. Una coltre di nubi e un varco. Un lieve bagliore di luce, una «fessura» nel cielo che non si vede e un «enorme stormo di uccelli» neri in migrazione verso un ignoto non-dove.

È questa la simbologia occulta di una copertina che a prima vista appare come invito all’acquisto, soglia da oltrepassare per il lettore intimorito di fronte al nome di Antonio Moresco. Funziona, perché questo libro non è Moresco, o è la declinazione di una sua distinta forma di prendere il volo e poi «tornare sotto terra», nel rifugio nascosto da dove l’autore afferma di provenire. Sarà il suo romanzo di congedo questo, L’addio, primo titolo consegnato a Giunti e serio candidato alla vittoria finale dello Strega.

L’anti-moresco si presenta così, in una nota che sa di premessa: sarà una narrazione «che prenderà le mosse da quel tipo di storie poliziesche che vi continuano a rifilare per intrattenervi in attesa della vostra morte e per ripetere e riconfermare un’idea astratta e convenzionale della vita, della morte, di voi stessi e del mondo. Ma qui non troverete le consuete reti di protezione, vi verrà chiesto di più e vi sarà dato di più».

Ed è quello che accade. Ci troviamo davanti a una trama assurda, tra il metafisico e il poliziesco, inverosimile eppure apparentemente semplice. C’è uno sbirro morto di nome D’Arco che si reca nella città dei vivi per portare a termine una missione la cui ricompensa sarà lui stesso. È cresciuto il numero di bambini morti, e una rete organizzativa che percorre ogni ramo della società si propone di incrementarne a dismisura la percentuale, «per farli stare il meno possibile nella città dei vivi» e risparmiargli l’orrore che li circonda e poi sovrasta. Sarà dunque D’Arco a dover porre fine a questo scempio, con la sua «faccia piena di ferite cicatrizzate» e i suoi «occhi bianchi». A guidarlo per i luoghi del male troveremo un bambino senza nome, privo di speranza e di parola, con il cranio rasato e sul collo «una cicatrice prodotta da una collana di filo spinato».

Tra scontri e sparatorie, inseguimenti e illusorie presenze luminose scopriremo che nulla è come sembra e che uccidere è anche far rinascere. E non importa la verosimiglianza della narrazione, il crederci o meno, conta soltanto sprofondare nell’abisso del male con cui Moresco decide di avvolgere il suo lettore. È un continuo, acuto rincorrersi, un accavallarsi di frasi brevi e concise che conferiscono alla prosa moreschiana un’estrema scorrevolezza e fluidità della lingua. Sembra un libro in notturna, scritto di fretta, quasi in un sussulto.

È un romanzo che volontariamente si ritorce su se stesso, attraverso una struttura circolare e ordinata nel disordine, cadenzata da tre lunghe notti di combattimento e paralizzanti echi dal passato. Se nelle battaglie buie in cui regna l’azione sembra di trovarsi in un film di Tarantino, dove D’Arco spara al nemico «senza dire niente» e vede «spruzzargli fuori di bocca il liquido gargarizzato», nel rievocare il passato si ricerca un’elevata forma di lirismo, e nel ricordo dell’amore disperato con «Quella» è dove palpitano gli slanci di poesia che l’autore non può fare a meno di offrirci.

Azione e poesia, quindi, in una storia dove manca un’autentica definizione dei personaggi, e gli unici due veri protagonisti – entrambi morti – fungono sì da angeli custodi l’uno dell’altro, ma angeli della morte che nell’indefinibilità perpetua tenderanno a confondersi e sovrapporsi, nel prima e nel dopo, nella città dei vivi come nella città dei morti, dove «non ci sono gli anni» e non esiste il tempo. Dove l’unica costante è il mormorio cantilenante che si aggira per l’infinito buio e l’infinito silenzio che travolge l’aria, «un coro verticale di voci di bambini morti» che «cantano ogni volta che viene ucciso un bambino nella città dei vivi, per piangerlo e per accoglierlo nella città dei morti».

Non vi è altro sottofondo che questo, un addio sofferente volto a mostrare il non-perché del male esteso che capovolge il vero della nostra civiltà. E che il canto dei bambini sia una metafora o il riprodursi di un’illusione non fa differenza. Come D’arco specchiandosi nel bambino, o il bambino in D’Arco, ogni lettore non potrà che confessarsi ammaliato e sconfitto: «Io non capisco più dove sono, se sono prima o se sono dopo. Mi sono perso tra la vita e la morte e tra la morte e la vita, tra il prima e il dopo e tra il dopo e il prima…». Incomprensibile, addio.

Fonte foto: http://wwwlibreriaverso.comappuntamenti/laddio/