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L’editoria, il mestiere del traduttore, la figura dell’editor: quattro chiacchiere con Matteo Codignola

di Daria Luzi

Ascoltare Matteo Codignola parlare del suo ruolo di traduttore ed editor per Adelphi può produrre due sensazioni: frustrazione ed entusiasmo. L’entusiasmo non ha bisogno di essere spiegato, è una condizione che si genera spontaneamente in presenza di chi riesce a trasmettere la passione per il proprio lavoro; la frustrazione, invece, è il sentimento che coglie chi in un attimo si rende conto che servirà ben più del duro lavoro per arrivare non tanto alla cima della montagna, ma almeno alle sue pendici. “Un po’ anarcoide” per sua stessa ammissione ma convinto che una Casa Editrice debba funzionare come una piccola caserma, durante l’incontro di sabato 25 marzo con noi studenti del Master, Codignola si è generosamente prestato al fuoco incrociato delle nostre domande, dipingendo il variopinto quadro dell’universo editoriale ed il pulviscolo di dettagli e magia che lo circondano.

Una delle anime di Adelphi è la Biblioteca Minima. Qual è il ragionamento che ha portato alla sua realizzazione?

Mi piace definire la Biblioteca Minima un piccolo delitto con due moventi: aprire a testi un po’ più leggeri e sottrarsi alla logica dell’acquisizione dell’intera opera di un autore. Abbiamo lavorato ampliando lo spettro del radar, comprendendo nella nostra ricerca anche opere “marginali”, cioè non pensate per il supporto libro; il primo numero, ad esempio, è un brevissimo inedito di Friedrich Nietzsche di circa 60 pagine (“Il nichilismo europeo. Frammento di Lenzerheide”, ndr) curato come se fosse un tomo di 500, con introduzione e note. Questo lavoro si deve alla fluidità intrinseca al libro, una qualità che rende possibile – e a volte necessario – rimaneggiarlo, come dimostra un curioso aneddoto famoso nel nostro ambiente. Un editore tedesco degli anni ’50, per ovviare alla carenza di nuovo materiale da proporre sul mercato, ristampò una serie di titoli del suo catalogo senza operare alcuna modifica ad eccezione della copertina, bianca; creò la Collana Bianca ed ottenne uno strepitoso successo. Un’operazione del genere, che fa leva sul libro come oggetto, è ciò che intendo per idea editoriale ed è anche ciò che può determinare il successo o l’insuccesso di un progetto. Nel caso della Biblioteca Minima, alla sua nascita non c’era in circolazione nulla di simile e forse è proprio per questo che ha funzionato, perché è riuscita a spiazzare il mercato.

Quello che dipinge è un panorama veloce e composito, all’interno del quale una Casa Editrice può faticare a mantenere la sua identità.

Un piccolo segreto per non perdere le caratteristiche di base consiste nell’ignorare le mode, perché quasi sicuramente passeranno senza lasciare traccia. Una seconda strategia potrebbe poi essere quella di guardare al proprio passato: quando Adelphi è nata, nel 1963, il suo campo d’azione era la pubblicazione dei cosiddetti “libri unici”, opere con la caratteristica di non pagare tributo ad alcun tipo di moda, vere e proprie “singolarità editoriali” esemplari per il tipo di autore o per l’argomento affrontato. Mi viene in mente il memoir di un critico letterario inglese del primo ‘900, figlio del più acerrimo nemico di Charles Darwin; l’autore aveva scritto anche altro, dei raffinatissimi cataloghi, ma nulla di adatto alla pubblicazione ad eccezione di “Padre e figlio”.  Era comunque chiaro fin dal principio che questo piccolo gioco, la caccia al tesoro dell’unicum letterario, si sarebbe esaurito e oggi non è pensabile tentare di riprenderlo; quel che si può fare, però, è mantenere lo stesso sguardo, lo stesso stile nella ricerca dei libri da pubblicare avendo sempre bene in mente quella singolarità da cui siamo partiti.

L’unicum può anche tramutarsi in caso letterario: recentemente Adelphi ha pubblicato diverse opere di Roberto Bolaño, vero e proprio fenomeno editoriale anche a livello di vendite. Qual è l’atteggiamento iniziale davanti ad un caso simile? C’è un intuitivo riconoscimento o prevale una certa riflessività, magari proprio legata alla particolarità del libro?

Senza bisogno di indorare la pillola possiamo dire che se qualcuno del mestiere, leggendo “2666” di Bolaño, non ne riconosce immediatamente le potenzialità, allora ha decisamente sbagliato professione. Ci sono libri che non lasciano spazio ai dubbi, neppure quando si discostano dal personale gusto di chi ne deve curare la pubblicazione: Don DeLillo, ad esempio, non rientra tra i miei autori preferiti ma il valore dei suoi testi è indiscutibile nel panorama della narrativa contemporanea. Tornando a Bolaño, è giusto ammettere che il merito della scoperta non è di Adelphi ma di Sellerio, editore con il quale l’autore aveva pubblicato fino a quel momento e a cui siamo subentrati, innescando una reazione inaspettata anche sul mercato. Un caso simile si è verificato con Emmanuel Carrère, proveniente da Einaudi, che con Adelphi si è tramutato in una vera e propria rockstar della letteratura; sono situazioni inaspettate, “effetti collaterali” tanto felici quanto non programmati sui quali spesso non si ha nemmeno un vero e proprio ruolo. Come nel tennis, certe cose accadono: uguale la palla, uguale il terreno di gioco, eppure a volte si vince e altre si perde. In linea generale, comunque, leggendo un testo non si pensa mai subito alle vendite ma si presta attenzione a certe corde, che nel caso di “2666” hanno vibrato.

Il caso di Bolaño ha portato alla luce alcuni aspetti del lavoro dell’editor, ma lei nasce traduttore. In questo campo uno dei suoi lavori più conosciuti ed apprezzati è senz’altro quella de “La versione di Barney”, dal romanzo di Mordecai Richler. Che difficoltà ha incontrato affrontando un testo così particolare?

Nessuna! Ho amato così tanto questo libro da non vedere l’ora di tornare a casa per lavorarci; l’ho terminato in tre mesi, riscrivendo ogni riga come se fossi stato l’autore. Devo ammettere che nella mia vita di traduttore ho avuto spesso la fortuna di imbattermi in opere che ho sentito familiari, per vissuto o per inclinazioni personali. Nel caso di Richler ho simpatizzato da subito con il suo romanzo e questo mi ha permesso di superare con relativa semplicità alcuni ostacoli legati alla resa della particolare comicità dell’autore.

Continuando in quest’ambito ambito, per quale motivo in Italia fatica ad imporsi la traduzione intra-linguistica, così frequente invece in altri paesi?

Credo dipenda molto dall’autore che si vuole tradurre. Pensiamo a Montaigne: in Francia neppure il più colto dei letterati riuscirebbe a comprenderlo a fondo leggendone i testi originali, e questo si deve alle importanti modifiche che ha subito la lingua nel corso dei secoli. Nel nostro caso invece, per accedere alla lingua dantesca – per citare un testo che si potrebbe pensare di tradurre in italiano moderno – basta un esaustivo apparato di note, come avviene anche per altri autori e altre opere. Il lettore appassionato e lo studioso possono godere del testo leggendolo nella lingua di partenza, mentre il pubblico più vasto, forse, non sarebbe interessato ad una simile proposta editoriale.

All’interno del catalogo Adelphi c’è un testo, “Tennis” di John McPhee, che potrebbe essere considerato la summa dei suoi due ruoli di editor e traduttore: non soltanto si è occupato della versione italiana, ma all’interno dei due racconti ne ha inserito uno del quale è autore. Come ha concepito questa idea?

“Tennis” è un testo altissimamente iconico, diventato un capolavoro nel suo genere oltre che un modello per tutta una schiera di autori che trattano di sport e cronaca. Tradurlo è stata un’impresa di fenomenale difficoltà, causata sia dalla mia angosciante preoccupazione di scrivere inesattezze, soprattutto in materia di tennis, sia per la precisione “demoniaca” del suo autore. Qualunque argomento tratti, McPhee si trasforma nel prodotto della sua analisi, ne assume le sembianze: far perdere al testo questa ricchezza sarebbe stato imperdonabile. Quanto alla costruzione del testo, mi stuzzicava l’idea di raccontarne il making of, soprattutto considerando la tipologia dei racconti. Da una parte abbiamo “Livelli di gioco”, la cronaca romanzata della semifinale di Forest Hills 1968 fra Arthur Ashe e Clark Graebner, mentre dall’altra c’è il racconto di Robert Twynam, giardiniere capo di Wimbledon; mi sembrava noioso giustapporre le due parti, così curiosamente diverse tra loro, corredandole solo di una piccola noticina esplicativa finale. Così ho fatto qualcosa che non si fa, mi sono letteralmente messo in mezzo: la mia parte è come la disturbante voce che accompagna le immagini del documentario, io spiego quello che è stato e che sarà ma posso sempre essere silenziato. Nel suo piccolo, anche questa è una di quelle piccole idee editoriali a cui accennavo prima e che se usate con criterio possono valorizzare la materialità stessa del libro.

Nel caso di “Tennis” l’intervento editoriale è immediatamente riconoscibile mentre di solito l’editor lavora nell’ombra, incontrando resistenze più o meno dure da parte degli autori. Tuttavia, nel mercato italiano, è riconoscibile la tendenza ad interventi testuali meno invasivi rispetto a quanto accade all’estero. Quali sono e dove vanno cercate, secondo lei, le ragioni di questa differenza? Nello sviluppo storico del settore editoriale o piuttosto nella qualità della scrittura, meno bisognosa di correzioni?

Più che nel percorso storico dell’editoria nei vari paesi, credo che la differenza nell’affrontare il lavoro editoriale sia legata ad un certo modo tutto italiano di considerare la scrittura. All’estero un testo, di qualunque natura e forma, è pensato prima di tutto per essere compreso dal pubblico, il più ampio ed eterogeneo possibile; ci si allena fin dai saggi scolastici, per i quali vengono date indicazioni precise e puntuali, da rispettare in modo tassativo. Questa abitudine evita di concentrarsi sulla forma permettendo di focalizzare l’attenzione sul contenuto, oggetto di critiche e modifiche che vengono accolte senza particolari reticenze. Da noi invece, per dirla con Eggers, il manoscritto italiano è considerato “l’opera struggente di un formidabile genio”, espressione dell’interiorità dello scrittore e quindi assolutamente immutabile. Un simile atteggiamento ha ostacolato, almeno all’inizio, la diffusione dell’idea della modifica testuale, così disinvolta invece nei paesi anglofoni. Gli interventi sul testo non devono comunque tradursi con la sostituzione dell’editor all’autore; uno scrittore è fatto del modo in cui scrive e lo stile personale necessita rispetto, ma non c’è nulla di male a rendere un testo più comprensibile e scorrevole.

Per concludere: cosa cerca Adelphi in un autore contemporaneo?

In “Wall Street”, film della fine degli anni ’80, dopo una lunga discussione Gekko si rivolge al suo interlocutore e lo fulmina dicendogli: “Bene, ora dimmi qualcosa che non so”. Come il personaggio di Michael Douglas, anche io cerco in un libro qualcosa di nuovo, di sconosciuto. Se devo essere sintetico, vorrei qualcosa in grado di portarmi in un posto in cui non sono mai stato.