Beppe Fenoglio
Autori

La malora, storia di un titolo fenogliano

La scelta del titolo più adeguato da assegnare a un’opera non è un problema spinoso solamente per l’editoria attuale: lo è sempre stato. Già, perché non si tratta “soltanto” di individuare la parola, l’espressione o la frase che più calzano con il contenuto del libro, che meglio ne racchiudono l’essenza o che più eloquentemente rimandano al significato ultimo del testo. Si tratta, infatti, anche di inserire agevolmente quel titolo in una determinata collana, tenendo dunque nel debito conto la tendenza che caratterizza quest’ultima, oppure di assecondare le esigenze di una determinata Casa rispettandone l’identità editoriale. Il tutto senza dimenticare la volontà dell’autore ed il messaggio che egli vuole trapeli subito dalla copertina che avvolge il suo testo; senza trascurare l’aspetto dell’appetibilità dal punto di vista dei lettori; senza tralasciare l’opinione di nessun collaboratore editoriale “navigato” in materia di titolazione.

È impossibile, ad ogni modo, trattenere una certa sorpresa quando si ritrovano queste esatte problematiche nel bel mezzo di un carteggio intercorso fra niente poco di meno che Italo Calvino e Beppe Fenoglio circa settant’anni fa. La disquisizione si incentrava sul titolo da assegnare al testo che noi tutti conosciamo come La malora. Queste opere che rappresentano ormai delle pietre miliari della letteratura italiana vengono spesso pensate come delle entità inscindibili, fuoriuscite quasi di getto dalla sola ispirazione autoriale e già complete sin dal primo momento di trama, personaggi, dettagli, titolo e – perché no? – copertina ed editore. E invece le lettere ci riportano con i piedi per terra mostrandoci un lungo e sovente tortuoso percorso di gestazione del testo che lo ha reso, infine, ciò che è oggi.

La malora di Fenoglio

In questo modo scopriamo da una lettera datata 21 giugno 1954 che il titolo La malora, scelto da Beppe Fenoglio per il testo che uscirà nella collana “I gettoni” di Vittorini secondo contratto firmato con la casa editrice Einaudi l’11 febbraio dello stesso anno, all’editore Giulio Einaudi (e non solo) non piaceva. Così riferisce, infatti, Calvino: «La malora è un titolo che non piace a nessuno e che allontana il lettore. Einaudi, seccato che in questi giorni abbiamo fatto uscire tre “Gettoni” con titoli deprimenti, vuole cambiarlo a tutti i costi» e conclude chiedendo a Fenoglio di inviare qualche altra proposta. Pochi giorni dopo, il 1 luglio, l’autore risponde condividendo il giudizio einaudiano sul proprio titolo che definisce «sì deprimente ed anche puzzante un poco di verismo ottocentesco, ma che [ha] il vantaggio grande d’essere titolo riassuntivo e “globale”». Fenoglio aggiunge poi qualche idea alternativa: La casa a Belbo, Con le sole braccia al mondo o Il servitore (come dice egli stesso, “tout court”), tutte suggeritegli, a detta sua, da un amico albese. Pur non mostrando eccessiva convinzione nei confronti di nessuna di queste, lo scrittore afferma di preferire la prima. Dalla lettera del 16 luglio, poi, si vede che il dialogo relativo al titolo del manoscritto in via di pubblicazione non è ancora chiuso: Fenoglio rilancia con due nuove proposte, Lassù a San Benedetto e Terra d’Agostino, di cui predilige ancora una volta la prima, anche se continua a dichiararsi aperto a qualunque scelta della casa editrice.

Pare evidente che l’autore langarolo ricercava preferibilmente per questo suo testo un titolo asciutto, aspro come la storia che aveva voluto raccontare: “neorealista” potremmo forse dire noi. Giulio Einaudi ed i propri collaboratori, invece, cercavano di rendere attraente un libro già svantaggiato dal fatto di essere parte di una collana sperimentale come “I gettoni” che raccoglieva le opere di autori ancora sconosciuti al pubblico.

Il carteggio da questo punto in poi perde traccia del titolo del manoscritto per farlo ricomparire come la ben nota Malora nei rendiconti del 1955 e del 1958. Se dal non troppo alto numero delle vendite ivi segnalate potremmo dare ragione a Giulio Einaudi nel sostenere che questo titolo sia in qualche modo respingente, resta il fatto che nessuno alla fine abbia avuto cuore di cambiarlo: un titolo «sì deprimente e […] puzzante un poco di verismo ottocentesco» ma che si è dimostrato tanto «riassuntivo e “globale”» da far parlare di sé ancora sessantacinque anni dopo la sua pubblicazione.     

Federica Garrone

Un’altra storia d’autore: http://www.mastereditoria.it/ilblog/maria-jatosti-una-vita-tutta-dun-fiato/